a cura della dott.ssa Chiara Lignola
Sindrome della seconda generazione, un dolore in differita.
(Testimonianza di un percorso psicoterapeutico)
Durante il mio primo viaggio in Israele, feci visita alla tomba di Oskar Schindler, sepolto nel cimitero francescano cattolico di Gerusalemme, vicino al Monte Sion, ma sbagliai orario trovai il cimitero chiuso! Non ero la sola però: notai che il custode, attraverso il cancello, stava parlando con un signore molto anziano, accompagnato da un ragazzo, presumibilmente il nipote, era un sopravvissuto della shoah e voleva portare un omaggio a colui che aveva salvato ben 1200 ebrei. Tornai il giorno dopo. La tomba era piena di di tantissimi sassi che le persone avevano lasciato al loro passaggio(ndr. E’ infatti usanza ebraica, un’usanza che risale ai tempi biblici, riporre sassi e non fiori sulle tombe).
Uno su tutti spiccava. Sopra era stato scritto con un pennarello un versetto:
“To them I will give within my temple and its walls a memorial and a name better than sons and daughters; I will give them an everlasting name that will not be cut.” Isaiah 56:5
(Io concederò loro nella mia casa e dentro le mie mura un posto e un nome più prezioso che figli e figlie; darò loro un nome eterno che non sarà mai cancellato).
Ancora oggi scrivendo queste righe con difficoltà trattengo la mia commozione.
Pensando a mio nonno Internato Militare Italiano e a come la sua esperienza nel campo di detenzione in Germania lo abbia, secondo i racconti di famiglia, segnato profondamente dal punto di vista psicologico, la domanda che mi sono spessa posta è stata “ma che peso ha avuto la Shoah sui figli e nipoti dei sopravvissuti?”
Gli studi più significativi presenti in letteratura sono stati portati a termine della dottoressa Rachel Yehuda, Professoressa di Psichiatria e Neuroscienze, Direttrice della Divisione per lo studio dello stress traumatico della Mount Sinai School of Medicine di New York.
L’esperienza stessa di Rachel Yehuda, proveniente da una famiglia ebrea osservante e cresciuta in un quartiere di Cleveland popolato da molti sopravvissuti all’Olocausto l’ha spinta a orientare la sua ricerca scientifica proprio sul trauma intergenerazionale.
Fino al 1983 la letteratura sugli ebrei e sui sopravvissuti all’olocausto non si soffermava sulle conseguenze che tale esperienza poteva aver avuto sulle generazioni successive. Quell’anno fece da spartiacque: venne aperto l’ambulatorio per il trattamento del Disturbo Da Stress Post Traumatico presso il Mount Sinai Hospital di New York e iniziano ad arrivare all’attenzione di Yehuda e dei suoi colleghi, non solo i sopravvissuti alla Shoah, ma anche i loro figli. I figli dei sopravvissuti che presentavano sintomi riconducibili agli effetti di un trauma (flashback, incubi, problemi relazionali) e la pressione a dover compensare le perdite subite dai genitori. Eppure i soggetti, non collegavano direttamente i sintomi all’Olocausto, nelle famiglie spesso non si parlava di quanto accaduto nei campi di sterminio, la shoah era infatti un tabù per molte famiglie; i pazienti, piuttosto, ritenevano di essere stati cresciuti da persone mentalmente danneggiate. Gli studi condotti sui superstiti e il loro figli confermano l’esperienza clinica: se è vero che non tutti quelli esposti al trauma sviluppano un PTSD è ormai accertato che gli effetti di un trauma possono essere intergenerazionali (Yehuda, 2015). I risultati delle ricerche sembrano confermare che i figli dei sopravvissuti all’Olocausto sono stati influenzati in molti modi dall’esperienza dei genitori. Per Yehuda (1998) la probabilità di PTSD nei figli dei superstiti risulterebbe tre volte maggiore e presenterebbero una probabilità di sviluppare un disturbo d’ansia maggiore del 50% rispetto alla popolazione generale.
Ad oggi non è raro imbattersi nell’espressione “sindrome della seconda generazione” usata soprattutto tra gli psicoterapeuti israeliani, questa espressione si riferisce gli ebrei che hanno vissuto il dramma dell’Olocausto attraverso i racconti, i comportamenti, lo stile educativo dei propri genitori sopravvissuti. E la domanda, in questa professione nasce spontanea :che cosa vuol dire in psicoterapia trattare un figlio di un sopravvissuto? Ho raccolto la testimonianza del Dott. Pappalardo e di una sua paziente, Ester, una ragazza ebrea, che ha seguito un percorso di psicoterapia cognitivo comportamentale presso il nostro Centro e che, nonostante la sua giovane età è una sopravvissuta alla Shoah di seconda generazione (così vengono chiamati i figli dei sopravvissuti) . Ester ha acconsentito a regalare alla redazione del nostro Centro il suo prezioso contributo.
Dario, cosa puoi dirmi rispetto all’esperienza di psicoterapia con una paziente figlia di una sopravvissuta all’Olocausto?
Si tratta sicuramente di una categoria di persone peculiare. Sul piano della manifestazione psicopatologica e della modalità di comunicazione e relazione che si viene a creare col terapeuta ho avuto modo di osservare alcune caratteristiche degne di nota e che impattano considerevolmente sull’andamento del percorso.
La prima cosa che mi ha stupito e al contempo coinvolto è stata la storia di vita personale e familiare: un concentrato di tragici avvenimenti stressanti e potenzialmente traumatici degni di uno script cinematografico, difficile da seguire e da ricordare per la ricchezza di particolari. Sono comunque stato aiutato dalla paziente, che ha un modo molto simpatico ed autoironico di narrare e di narrarsi. Non è un dettaglio da poco. Su certi argomenti ci si aspetta una certa chiusura, il che rende difficile l’intervento e più lento l’instaurarsi di una buona alleanza terapeutica (ndr probabilmente in parte si tratta di un aspetto culturale: il famoso umorismo ebraico, profondamente radicato nella cultura ebriaica, con la sua peculiare nota autoironica del quale parlò anche Freud nella sua opera dal titolo “Il motto di spirito,1905”) . La storia familiare è molto importante e in qualche modo la trasmissione intergenerazionale della cultura d’origine è quasi un obbligo, tanto che la mia paziente mi racconta di essere stata (e di continuare ad esserlo) oggetto di racconti quotidiani sulle vicissitudini della madre, scampata miracolosamente alla morte da bambina, e passata per vari orfanotrofi prima di essere adottata. La paziente non porta solo se stessa e qualche strascico di vita familiare in seduta. Porta direttamente tutta la stiva di famiglia.
La seconda cosa che ho riscontrato è stato il grande senso di responsabilità e la facilità al provare emozioni e sentimenti di colpa. Aspetti psicologici che vengono spesso affrontati con comportamenti di redenzione o compensazione. In cima alla lista dei verbi più usati c’è “devo”. In cima ai nomi “regole, norme”. Tu (Chiara. NdR) ricorderai il nostro studio portato al convegno di Assisi del 2015 sul senso di colpa e sulla religione, e su come la sottocategoria degli ebrei, non solo praticanti, avesse maggiori tratti (non necessariamente patologici) di tipo ossessivo e una certa propensione al senso di colpa. Nulla di incontrovertibile, certo, ma abbastanza congruente con questa mia esperienza di terapia.
Per finire, su un piano più terapeutico, ho capito quanto, una cosa scontata per me fosse per lei totalmente ignorata. Non dico inaccettabile, dico proprio che non la contemplava nel suo sistema di categorie mentali: la possibilità di lasciarsi andare, di potersi aprire sul suo dolore con qualcuno, di ammettere le proprie debolezze, di dire “non ce la faccio” “mi voglio fermare un po’”.
Nel caso della mia paziente, la sua autoironia era sicuramente un modo per affrontare la realtà, anche funzionale, ma aveva anche una funzione di deviare l’attenzione (altrui e propria) dal dolore scherzandoci e ridendoci su.
Questa è lei. Altre persone potrebbero fare diversamente ma non mi stupirei di incontrare la medesima propensione alla responsabilità oppure un suo rigetto più marcato rispetto a quanto potrebbe mostrarlo chi non è ebreo o non ha un legame con l’Olocausto.
Cosa significa per lei la storia di sua mamma?
Ritengo che la storia di mia mamma faccia parte della mia vita da sempre. Da quando ho memoria,non ricordo un momento della mia vita nel quale non ero ancora a conoscenza della sua storia
Solo la parola stessa, olocausto, anzi shoah, mi si collega subito a mia mamma. Sono due parole che vanno insieme:“shoah = mamma”
Mi ricordo che gia a scuola nelle occasioni nelle quali si toccava l’argomento, ero sempre nominata ed eventualmente chiamata a parlarne, essendo una seconda generazione ( nonostante i miei coetanei fossero più comunemente di terza) e mia madre, nel giorno della memoria, ne parlava ai miei compagni negli incontri organizzati sull’argomento.
Senza alcun dubbio, la vita insieme ad una persona che ha avuto una vita difficile come mia mamma, non ha reso le cose semplici. In primis, la necessità di vivere intorno a lei e non insieme a lei. A casa non ci si poteva lamentare di niente (eventi brutti, momenti difficili) perché veniva subito paragonato a quello che aveva dovuto passare lei, che allora, non era paragonabile. Perché come fai a paragonare lacrime per un esame bocciato in confronto alla storia di mamma?
Penso che i problemi di salute di mamma, sempre dovuti alla sua infanzia difficile, hanno influenzato anche in altri aspetti della vita quotidiana come il rapporto con il cibo e con gli oggetti. A casa non si mangiava mai insieme, non c’era mai il cibo pronto quando rientravi, niente merenda da portare a scuola….non ho quasi nessun ricordo di mia mamma che cucina per noi. Ancora oggi come allora è facile trovarla di notte, in cucina, mentre mangia il suo pane burro e zucchero, come in Polonia. Anche su questo argomento non era consentito lamentarsi: le volte che ho tentato di farlo venivo sgridata e mi veniva ricordato che a 6 anni il cibo dovevo prepararmelo da sola. Forse non è poi così strano che abbia sviluppato in seguito un disturbo alimentare.
Un altro problema che ho notato è che ho bisogno di accumulare cose e ho una difficoltà estrema nel separarmi dagli oggetti, perché magari mi serviranno o perché mi ricordano qualcosa…mi piacciano sopratutto scatole! La mia casa ne è piena! Ma non solo io accumulo, anche mia madre e mia sorella. Mia madre in particolare colleziona bambole, penne, tovaglioli e fiammiferi. Mia sorella per lo più accumula gatti (ne ha una quindicina).
Ma penso che l’aspetto più pesante sono i sensi di colpa, per qualsiasi cosa. Il bisogno di scusarsi per tutto. Un aspetto che per me è peggiorato con gli anni.
Può dirmi qualcosa rispetto alla sua esperienza con la terapia cognitivo comportamentale?
La terapia mi ha aiutato proprio su questo fronte. E’ emersa la mia incapacità di dire “mi sono successe cose brutte e va bene sentirsi tristi per quanto mi è accaduto” “non devo paragonare tutto quello che mi è successo a quello che invece è successo a lei”.
Sentirsi dire da un professionista “puoi permetterti di essere triste” ha fatto per me un’enorme differenza così che ad oggi, dopo questo percorso, il giorno della memoria ha un sapore differente, mi dice: “non dimentico l’olocausto e la storia di mia madre, ma non dimentico neanche la mia storia e i miei obiettivi”.
Riferimenti bibliografici e letteratura consigliata
Freud S. (1905), Il motto di spirito, trad. it. in Opere, vol. V, Boringhieri, Torino, 1972.
Lignola et al. (2015). Doc, religiosità e sensibilità alla colpa. Uno studio correlazionale. APC. VI Forum sulla Formazione in Psicoterapia, Assisi.
Yehuda R. (2015). How Trauma and Resilience Cross Generation” On being with Krista Tippett. July 30).
Yehudi R (2016). Holocaust Exposure Induced Intergenerational Effects on FKBP5 Methylation. Biological Psychiatry A Journal of Psychiatric Neuroscience and Therapeutics. September 1, 2016Volume 80, Issue 5, Pages 372–380