Il vero viaggio di scoperta non consiste nel trovare nuovi territori,

ma nel possedere altri occhi, vedere l’universo attraverso gli occhi di un altro,

di centinaia d’altri:

di osservare il centinaio di universi che ciascuno di loro osserva,

che ciascuno di loro è.

(Marcel Proust)

Ricorre quest’anno il ventesimo anniversario della morte di Vittorio Guidano, circa un anno fa ci lasciò Gianni Liotti. Per onorare la nostra storia, i maestri che ci hanno lasciato e in parte anche nella speranza di una ricerca che punti alla conciliazione delle prospettive, credo sia importante la riflessione sulla filosofia e l’epistemologia della mente, ovvero tutta quella riflessione metafisica che riguarda l’idea di mente e di uomo e che viene prima di una scelta teorica, di un paradigma di analisi e verifica dei fenomeni, infine di una pratica clinica. La nascita del cognitivismo italiano si colloca tra la fine degli anni sessanta e i primissimi anni settanta (Chiesa G. Pizzone A., 2005): a distanza di circa cinquant’anni, a che punto si trova il dibattito tra i modelli cognitivi di derivazione neopositivista e razionalista e i modelli ispirati al costruttivismo e alla complessità?

I tre volumi del “Nuovo Manuale di Psicoterapia Cognitiva” di Bruno Bara, la cui ultima edizione risale ormai al 2005, sono il tentativo di dare voce a tutte le anime del cognitivismo italiano e si aprono con l’introduzione di Gabriele Chiari e Maria Laura Nuzzo, sulle basi epistemologiche delle terapie cognitive.

Che rapporto esiste tra percezione e realtà? Qual è l’idea di mente e di uomo che anima un approccio teorico in psicologia? Come si specifica questa idea nella ricerca scientifica e nella pratica clinica? Quale rapporto intercorre tra epistemologia, ricerca, pratica clinica e in modo circolare, tra pratica clinica ed epistemologia?

Nel nostro piccolo: quando abbiamo davanti il nostro paziente, che idea abbiamo della sua persona, della sua mente e dei traguardi che può raggiungere? Qual è il senso della nostra relazione con lui nel qui ed ora?

La Società Italiana di Terapia Cognitiva e Comportamentale comprende diverse anime, ciascuna con un proprio approccio teorico e peculiari prassi cliniche. Il dibattito, spesso accesso, sia in rete che in sede congressuale, in ultima analisi, verte sulle risposte che ciascun approccio offre a queste essenziali domande. Queste differenze vengono percepite come la forza che unisce ricercatori e clinici tanto diversi: si cresce attraverso il confronto dialettico non grazie all’autoreferenzialità.

Durante gli anni dell’università, iniziare a studiare per un esame significa quasi sempre confrontarsi con i primi capitoli, spesso ripetitivi, che iniziano con l’analisi dell’etimologia della parola “psicologia”, definendola come scienza, poi il campo di indagine della singola disciplina (generale, di base, sociale, dello sviluppo e così via), il metodo scientifico in generale e i paradigmi metodologici dello specifico settore di ricerca. L’importanza del lavoro di Chiari e Nuzzo risiede nel fatto compiere un ulteriore passo indietro, in quel campo che sta al confine tra la filosofia, l’epistemologia e la scienza e calarlo nel contesto del cognitivismo italiano: opposti teorici come “induttivismo e deduttivismo […] verificazionismo e falsificazionismo […] positivismo e razionalismo critico” (Chiari Nuzzo, 2005) non sono più righe di testo, ma diventano scuole che hanno una via e un numero civico conosciuto, aule, volti lezioni e, soprattutto, relazioni umane tra una generazione di cognitivisti italiani che ancora ci insegna come si fanno ricerca e terapia e una generazione che sente di avere ancora molto da imparare.

L’osservazione dei fenomeni è guidata dalle teorie.

Benchè alcuni modelli cognitivisti si occupino di fenomeni mentali, cioè non manifesti, hanno un modello di sensoriale della conoscenza, presuppongono, cioè, che esista una realtà esterna, che si rivela tramite gli organi di senso. La conoscenza che ne deriva può essere considerata valida nella misura in cui vi è corrispondenza tra essa e il mondo reale. Sebbene la conoscenza sia vista come una rappresentazione della realtà e non una riproduzione fedele di essa, essendo per lo meno mediata da un sistema di credenze, esistono parametri di riferimento rispetto ai quali poter definire errate o meno tali credenze. La conoscenza, in questo senso, si sviluppa per giustapposizione di informazioni provenienti dall’esterno. Il percorso terapeutico pertanto consiste nell’applicazione di protocolli terapeutici, sottoposti a verifica di efficacia e l’aspettativa di un terapeuta è quella di ridurre significativamente o eliminare i sintomi, poiché il cambiamento in terapia avviene attraverso un processo di tipo prescrittivo che mira ad incrementare le conoscenze e le competenze del paziente.

I modelli cognitivi costruttivisti si fondano sui concetti di complessità e di sistemi auto-organizzati, derivati da scienze diverse dalla psicologia, come la fisica, la matematica, la biologia. In questo contesto la mente è un sistema chiuso, auto-organizzato e autoreferenziale: sensazioni e movimento sono mediati dagli stessi canali neurali e per questo motivo la mente produce non solo le sue uscite, ma anche le sue entrate. In questo modo viene meno la separazione tra individuo ambiente, perché tutto ciò che è mentale è il prodotto di abilità motorie costruttive. La conoscenza è una riproduzione non della realtà, ma di ciò che, per chi percepisce, è vitale notare. La mente è quindi un sistema chiuso, che riproduce nel tempo il proprio equilibrio e che cerca nel mondo esterno ciò che serve per mantenerlo stabile. Il sintomo procura dolore, certamente, ma ha un suo senso all’interno di un sistema autopoietico. Va da sé che la terapia non può essere prescrittiva, può solo introdurre nel sistema elementi nuovi, perturbanti e allo stesso tempo imprescindibili che obblighino il sistema a creare un equilibrio diverso, percorribile, in conseguenza del quale il sintomo non sia più necessario. Il cambiamento, in questo senso, non ha obiettivi attesi e oggettivi, ma solo obiettivi percorribili, agibili per il sistema cognitivo del paziente.

Da questo punto in poi, la posizione di Nuzzo e Chiari si fa più esplicita in merito alla scelta teorica: accantonata la corrente razionalista, i cui esponenti in Italia vengono soltanto citati e brevemente trattati in chiusura di capitolo, segue una più estesa descrizione dei costruttivismi. Viene operata una prima distinzione tra costruttivismo banale (essenzialmente ancora razionalista) e un costruttivismo radicale, in cui la conoscenza non è informativa sulla realtà, ma sulle modalità di ordinamento dell’esperienza dell’osservatore.

Il costruttivismo che gli stessi Chiari e Nuzzo definiscono ermeneutico considera la conoscenza come un’interpretazione storicamente fondata, linguisticamente generata e socialmente negoziata, anziché cognitivamente prodotta. E’ parere di chi scrive che esso costituisca il tentativo di superare un problema insito nel costruttivismo radicale, ovvero l’isolamento del sistema cognitivo, che produce esso stesso la propria realtà, senza la possibilità di un’interazione autentica e diretta con il mondo esterno. Risolvere questo dilemma significa, in ultima analisi, interrogarsi su quanto veramente siamo soli ed è problema più filosofico che scientifico. Pur avendo io scelto una scuola costruttivista radicale e condividendo molti degli assunti di Nuzzo e Chiari, mi rimane il dubbio che questo dilemma origini dal deduttivismo di questi modelli teorici: in ultima analisi, qual è il punto critico in cui una teoria può proseguire senza ancorarsi ai dati e qual è il limite oltre al quale l’induttivismo in psicologia non è più esplicativo e predittivo? Esiste un equilibrio tra questi due estremi?