A cura delle Dott.sse Sara Di Biase*, Monica Ganni**, Francesca Davini***e dei Dott.ri Giovanni Marcacci**** e Saverio Cecioni*****
*Psicologa – Psicoterapeuta
** Biologa – Nutrizionista
*** Psicologa
**** Medico Psichiatra – Psicoterapeuta
***** Psicologo
Secondo l’ADA (American Dyabetes Association, 2011), con il termine diabete si fa riferimento a “un gruppo di malattie del metabolismo caratterizzate da un’iperglicemia risultante da delle disfunzioni della secrezione dell’insulina, dell’azione dell’insulina o di entrambe”.
Il diabete è dunque una malattia metabolica cronica, di cui ne esistono due forme: diabete di tipo 1 (DT1) e diabete di tipo 2 (DT2).
L’eziologia del DT1 è di origine autoimmune con la distruzione delle cellule beta-pancreatiche che producono insulina. Tale forma di diabete è la meno comune (colpisce circa il 5% della popolazione diabetica). I pazienti sono giovani, quasi sempre tra i 15 e i 20 anni di età. Sono di costituzione magra e, non raramente, sottopeso. L’esordio è relativamente acuto, frequentemente avviene durante o dopo una malattia infettiva. E’ caratterizzato da polidipsia (sensazione di sete intensa) e poliuria (aumento del volume della quantità di urina emessa che può superare i 2 litri entro le 24 h), affaticamento e debolezza generale, calo ponderale, propensione ad essere colpiti da infezioni e cattiva cicatrizzazione delle ferite. Il DT2, invece, consiste nello sviluppo di una insulino-resistenza con conseguente tossicità lipidica e glucidica (ADA, 2015). Colpisce circa il 95% della popolazione diabetica ed è in costante aumento nella popolazione globale. Inoltre, la maggior parte di questi pazienti con tale forma di diabete è obesa (circa l’80% dei casi). Si manifesta con una progressiva apparizione dei sintomi e l’esordio quasi sempre è dopo i 40 anni.
Il diabete è a tutti gli effetti una malattia di tipo sistemico, cioè riguarda tutto l’organismo, determinando, se curato male o trascurato, danni a vari organi e tessuti.
Le complicanze croniche della
malattia, sia DT1 che DT2, possono essere lievi ma anche gravi e disabilitanti.
Generalmente, le complicanze acute
sono più frequenti nel diabete tipo 1 e sono in relazione alla carenza
pressoché totale di insulina. In questi casi il paziente può andare incontro a
coma chetoacidosico, dovuto ad accumulo di prodotti del
metabolismo alterato, i chetoni, che causano perdita di coscienza,
disidratazione e gravi alterazioni ematiche. Nel diabete tipo 2 le complicanze
acute sono piuttosto rare mentre sono molto frequenti le complicanze croniche
che riguardano diversi organi e tessuti, tra cui gli occhi, i reni, il cuore, i
vasi sanguigni e i nervi periferici: si va dalla retinopatia diabetica (danno a carico dei piccoli vasi sanguigni che
irrorano la retina) alla possibilità di malattie cardiovascolari,
fino alla frequente neuropatia
diabetica (perdita di
sensibilità, dolore e danni agli arti che può portare all’amputazione degli
stessi nei casi più gravi). Inoltre, nelle donne in gravidanza, il
diabete può determinare conseguenze avverse sul feto, da malformazioni
congenite a un elevato peso alla nascita, fino ad un alto rischio di
mortalità perinatale. La malattia e le sue complicanze
sono però curabili e i danni possono essere minimi se vengono attuati i
programmi di cura e di prevenzione adeguati.
Secondo i dati pubblicati dalla World Diabetes Federation, nel mondo 425
milioni di persone vivono con il diabete (1 adulto su 11) e 212 milioni (1
adulto su 2) non sanno di averlo.
Secondo l’Organizzazione
Mondiale della Sanità, 52 milioni di persone vivono
con il diabete in Europa, dove la prevalenza di questa malattia è in crescita
(arrivando, in alcuni Stati, a tassi del 10-14% della popolazione). In Italia,
l’Istat stima che le persone con diabete sono oltre 3 milioni e 200 mila, cioè
il 5,3% dell’intera popolazione. Questi numeri ci permettono di intuire la
rilevanza dell’impatto di questa malattia da un punto di vista non solo
sanitario, ma anche socio-economico.
La prevalenza del diabete di tipo 1 in Italia è tra lo
0,4 e l’1 per mille. Il diabete di tipo 2 è in continua crescita a causa dell’aumento dell’obesità e della
sedentarietà (indagini mirate forniscono percentuali che si attestano tra il 6
e l’11%; Bonora & Sesti, 2016).
Secondo i dati della sorveglianza Passi (Progressi delle Aziende Sanitarie per la Salute in Italia) la prevalenza di diabetici cresce con l’età (è inferiore al 2% nelle persone con meno di 50 anni e sfiora il 10% fra quelle di 50-69 anni), è più frequente fra gli uomini (5,1%) che fra le donne (3,8%), fra i cittadini italiani rispetto agli stranieri, e nelle Regioni meridionali rispetto al Centro e al Nord Italia. È interessante sottolineare inoltre come il rapporto Passi “Diseguaglianze sociali e salute” (Gallo & Busolin, 2009) evidenzia il fatto che in entrambi i generi si conferma l’associazione di questa patologia con uno stato di svantaggio socioeconomico (basso livello di istruzione e molte difficoltà economiche).
La prevenzione del diabete può essere classificata in primaria e secondaria.
La prevenzione primaria ha lo scopo di identificare e proteggere gli individui a rischio di sviluppare il diabete. Se per il diabete di tipo 1 al momento non esiste possibilità di prevenirlo, nel diabete di tipo 2, attraverso un cambiamento dello stile di vita, indirizzato a controllare il peso, una corretta alimentazione e un aumento dell’attività fisica, si può ridurre notevolmente il rischio di ammalarsi o quantomeno, si può ritardare la sua l’insorgenza.
Il primo passo verso la prevenzione è conoscere i fattori di rischio, che indicano se una persona ha qualche probabilità di essere diabetica in futuro. Avere un’età superiore a 45 anni e la presenza di diabete in un genitore/fratello/sorella rappresenta una condizione che risulta statisticamente associata all’insorgenza della patologia diabetica. Per una donna rappresenta un fattore di rischio anche aver avuto un figlio di peso alla nascita superiore a 4 kg e chiaramente aver sviluppato diabete gestazionale. Come per altre patologie croniche, il diabete è correlato alla presenza di fattori di rischio comportamentali, come fumo di tabacco, sovrappeso e obesità, consumo eccessivo di alcol, alimentazione scorretta con scarso consumo di frutta e verdura e vita sedentaria. Uno stile di vita sano, quindi, è da considerarsi il metodo più efficace per evitare o, quantomeno, ritardare l’insorgere di questa forma di diabete.
La prevenzione secondaria prevede la diagnosi precoce e la prevenzione delle complicanze. La diagnosi precoce è attuata quando la malattia è già in corso, anche senza che si sia manifestata con dei sintomi. Consiste quindi, nell’individuare con esami di laboratorio quali siano i soggetti che già presentano delle alterazioni dovute alla patologia, e di applicare una serie di provvedimenti finalizzati a bloccare o rallentare l’evoluzione della malattia. La prevenzione delle complicanze è attuata quando la malattia si è già manifestata clinicamente con dei sintomi e consiste nell’applicare tutti gli strumenti a disposizione al fine di evitare o rallentare l’insorgenza di complicanze anche croniche della malattia.
Entrambe le forme di diabete incidono in modo significativo sulle abitudini e sulla qualità della vita e necessitano di un trattamento di autocura costante che abbraccia più aspetti: ne sono un esempio l’accurato automonitoraggio quotidiano della glicemia, fare esercizio fisico, seguire un’alimentazione a basso contenuto di zuccheri, assumere regolarmente la terapia assegnata (farmaci o insulina), non fumare, non bere alcolici; tale processo richiede costanza, energia, pazienza e spesso crea disagio e stress. L’evento critico della diagnosi e l’aspetto cronico-degenerativo della malattia mettono a dura prova il benessere psico-fisico del singolo, che si trova costretto ad affrontare un cambiamento alle volte significativo. Parallelamente, la compresenza di aspetti dicomotici, ossia l’essere una malattia asintomatica da un lato e il rischio concreto di sviluppare gravi complicanze dall’altro, induce una forte ambivalenza dal punto di vista psicologico: esistono infatti numerosi dati in letteratura che indicano una stretta correlazione tra malattia diabetica e condizioni psicologiche, che a loro volta influenzano la gestione della malattia.
In particolare il disturbo depressivo maggiore, così come le fobie e il disturbo d’ansia generalizzata, è tra i più diffusi in persone con problemi di salute fisica con una prevalenza due volte superiore alla popolazione generale; inoltre, in giovani donne con diabete di tipo 1 è raddoppiato il rischio di sviluppare disturbi del comportamento alimentare (anoressia nervosa e bulimia nervosa); infine, anche se non completamente impotenti, i maschi possono manifestare una perdita dell’interesse sessuale e una diminuzione dell’eccitazione e del piacere.
Il diabete, quando arriva, qualunque sia la sua forma, desta scompenso; citando Harris, la malattia potrebbe essere paragonata ad una sberla suonata dalla vita. Che cosa s’intende per sberla? Qualcosa che arriva all’improvviso, che non desideriamo, che ci fa male e che ci fa soffrire. Quando accade abbiamo uno shock, proviamo dolore, abbiamo la sensazione di perdere l’equilibrio, ci sentiamo spaesati e spesso non sappiamo come fargli fronte. A volte ci sembra più uno schiaffetto, altre volte abbiamo la sensazione di essere stati messi al tappeto.
Una testimone dice: “Mi è stato diagnosticato il diabete di tipo 1 a 22 anni. Frequentavo il secondo anno di Scienze Infermieristiche e ogni giorno vivevo la malattia degli altri prendendomene cura. Sapevo benissimo di cosa si trattava… Non volevo crederci e non accettavo di curarmi. Perché proprio a me? Nessuno poteva capire quello che provavo, perché spettava a me farci i conti e conviverci”.
È possibile che queste parole siano l’espressione di un disagio comunemente sentito? Ritornando al ceffone… abbiamo appena saputo della nostra malattia, siamo a terra doloranti, con un mix di emozioni che si susseguono e/o che si sovrappongono: siamo increduli (“non ci posso credere, non è possibile!”), impauriti (“Cosa accadrà? Potrei morire?”), arrabbiati (“Non è giusto! Ma perché proprio io?”), tristi (“E’ tutto finito, niente sarà più come prima, ho perso la possibilità di vivere la mia vita”). Percepiamo un divario tra la realtà che vorremmo e la realtà che abbiamo. Dunque cosa facciamo? Il nostro istinto tende ad originare azioni finalizzate a colmare il divario, ovvero si assiste al via di una serie di atteggiamenti che, per la loro natura, potrebbero essere paragonati a dei “guerrieri” che lottano al fine di riportare un equilibrio. Nasce una “guerra” contro ciò che ci ha fatto male; l’unico scopo è eliminare il nemico indesiderato. Il più delle volte si assiste ad un aumento della sofferenza e ad uno spreco di forza ed energie che, se provassimo ad accettare ciò che ci è capitato, potremmo investire in qualcosa che potrebbe essere più funzionale. Ma come possiamo accettare il diabete, una malattia cronica, invalidante che necessita di un’auto-cura costante che porta disagio e stress? Ahimè domanda legittima e, dopo aver condiviso la sofferenza che traspira da questo quesito, potremmo riflettere sugli effetti che la lotta porta. È possibile che la battaglia ci impegni a tal punto che non abbiamo il tempo di riflettere su… E se provassimo ad accettare la patologia? Che succederebbe? Cambierebbe qualcosa? Accettarla non significa che ci deve piacere, che la dobbiamo volere, vuol dire fare spazio al diabete, vuol dire non lottare contro lui ma assistere lui e noi stessi. Nello specifico significa imparare ad adottare strategie di coping che migliorano l’auto-cura. In altre parole, lo scopo è imparare a prendersi cura della malattia e della sofferenza che essa porta, assumendo verso noi stessi un atteggiamento gentile e compassionevole. L’obiettivo è anche lo sviluppo di abilità psicologiche che siano in grado di farci prendere le distanze da pensieri e sensazioni sgradevoli, figli della malattia stessa, favorire la nascita di una consapevolezza che ci insegni ed educhi a rimanere sul presente e, contemporaneamente, che ci accompagni nella scoperta dei nostri valori (ossia capire cosa c’è nel nostro cuore, cosa conta davvero per noi) al fine di creare repertori comportamentali (azioni) in linea con quello che per noi è importante. Tali strategie arrivano dalla Terapia dell’Accettazione e dell’Impegno (ACT).
L’ACT, fondata da Steven Hayes, è un intervento cognitivo comportamentale contestuale evidence-based, progettato per creare una maggiore flessibilità psicologica (Luoma, Hayes, Walser, 2019) al fine di creare un’esistenza ricca e significativa nonostante la sofferenza e il dolore che la vita inevitabilmente comporta. L’obiettivo dell’ACT è sviluppare una maggior flessibilità psicologica, alleviare i problemi delle persone e promuovere la loro crescita. L’ACT può essere praticata sia in trattamenti di gruppo che individuali.
Dalla letteratura emergono molti studi che mettono in risalto l’efficacia dell’ACT nel trattamento del diabete. I pazienti che adottano strategie di coping ACT migliorano nell’autogestione della malattia (Greeg et al., 2007; Massey et al., 2018, Nordally et al., 2017). I dati indicano che gli interventi basati sulla mindfulness e quelli mirati a favorire l’accettazione del disturbo sembrano ridurre i sintomi fisiologici e psicologici prodotti dal diabete stesso, riducendo così lo stress nel malato (Zeinab Shayeghian et al., 2016).
Potremmo concludere che, per quanto possiamo sentirci “in trappola”, esiste un’uscita. Il segreto è: fare il primo passo.
Bibliografia:
American Diabetes Association. (2013). Diagnosis and classification of diabetes mellitus. Diabetes care, 36(Supplement 1), S67-S74.
Bonora, E. & Sesti, G. (2016). Il diabete in Italia.
Doherty, A. M. (2015). Psychiatric aspects of diabetes mellitus. BJPsych Advances, 21(6), 407-416.
Gallo, T., & Busolin, A. (2009). Rapporto PASSI Diseguaglianze e Salute.
Garrapa, G. G. M., Tangerini, G., Frausini, G., Landini, E., Lizzadro, F., Lucarelli, G., … & Volpe, M. (2015). Approccio integrato educazionale e cognitivo-comportamentale in un gruppo di pazienti diabetici: effetto sul compenso metabolico e sul benessere psicologico.
Gregg, J. A., Callaghan, G. M., Hayes, S. C., & Glenn-Lawson, J. L. (2007). Improving diabetes self-management through acceptance, mindfulness, and values: a randomized controlled trial. Journal of consulting and clinical psychology, 75(2), 336.
Harris R. (2013). Se il mondo ti crolla addosso. Imparare a veleggiare tra le ondate della vita. Erickson.
Luoma, J. B., Hayes, S., & Walser, R. (2019). Il manuale del terapeuta ACT. Apprendere e allenare le abilità dell’Acceptance and Commitment Therapy. (E. Rossi, trad.). Giovanni Fiorir Editore.
Massey, C. N., Feig, E. H., Duque-Serrano, L., Wexler, D., Moskowitz, J. T., & Huffman, J. C. (2018). Well-being interventions for individuals with diabetes: A systematic review. Diabetes research and clinical practice.
Morrison, J. (1998). Disturbi psichici e malattie organiche, McGraw-Hill Education.
Noordali, F., Cumming, J., & Thompson, J. L. (2017). Effectiveness of mindfulness-based interventions on physiological and psychological complications in adults with diabetes: a systematic review. Journal of health psychology, 22(8), 965-983.
Shayeghian, Z., Hassanabadi, H., Aguilar-Vafaie, M. E., Amiri, P., & Besharat, M. A. (2016). A randomized controlled trial of acceptance and commitment therapy for type 2 diabetes management: the moderating role of coping styles. PloS one, 11(12).
Sitografia: