a cura della Dott.ssa Chiara Lignola
“Tutti ne parlano, hai sentito?”- Mia madre, più che settantenne, da poco approdata all’utilizzo di whatsapp, ha ricevuto un messaggio catena dai suoi contatti che avvertiva del pericolo Blue Whale – “Ti contattano su whatsapp e dopo non puoi uscirne”
La mia intenzione non è di spiegarvi come è nato e funziona il “Blue Whale Challenge”, ormai avrete letto tanti articoli, visto i servizi delle”Iene” e di “Chi l’ha visto?”, ricevuto anche voi forse messaggi catenaallarmanti e potrete trovare facilmente online la lista delle prove che chiede di sostenere.
C’è chi parla di bufala, di mancanza di prove certe sull’esistenza stessa di questo “gioco” .
Vero o non vero le regole del Blue Whale sono facilmente accessibili a tutti ad oggi con una semplice ricerca online e questo vuol dire che chiunque potenzialmente potrebbe proporle in una catena piuttosto che seguirle di sua volontà.
Le ricadute quindi è doveroso non sottovalutarle, al tempo stesso c’è un altro aspetto da tenere in considerazione: le condotte autolesive, bullismo, cyberbullismo, abuso di sostanze, suicidio sono problematiche che riguardano gli adolescenti al di là dell’esistenza di questo gioco e quindi classificare ogni caso di tentato suicidio o suicidio, ogni taglio su un braccio sotto l’etichetta del Blue Whale è una banalizzazione. Forse farà sentire alcuni adulti più vicini al mondo degli adolescenti ma di fatto risponde più all’esigenza di masticare le parole del momento e il rischio è quello di banalizzare e, non vedere davvero chi è la persona che arriva a compiere determinati gesti e quali sono le sue motivazioni, di ricondurre ogni segno di disagio all’hashtag del momento.
I casi di suicidio avvenuti nel nostro Paese negli ultimi mesi sono stati ricondotti automaticamente, senza prove accertate, al gioco stesso.
Parliamo di disagio giovanile? Di condotte autolesive o suicidio? Di cyberbullismo?Le finestre e i collegamenti da aprire sarebbero infiniti.
Agganciandosi ai fenomeni amplificati da internet e più nello specifico dai social, noi vorremmo cogliere l’occasione per parlare oggi di condotte autolesive che oltre al bullismo e cyberbullismo, dei quali ci occupiamo già in prima linea, sono tra le problematiche di maggiore rilevanza presenti in età evolutiva.
Prima di tutto cosa si intende?
Le condotte auto lesive non suicidiarie sono comportamenti volti ad auto provocare deliberatamente distruzione di tessuti corporei SENZA intenti suicidari (la morte può essere una conseguenza delle condotte stesse ma non il fine).
Nell’ultima edizione del Manuale Diagnostico e statistico dei Distubi Mentali DSM-5 (APA, 2013) sono state inserite le categorie diagnostiche di “Autolesionismo non suicidario” (NSSI: not suicidal self injury) e “Autolesionismo non suicidario non altrimenti specificato” (NSSI-NAS).
Le ricerche hanno dimostrato che tali condotte si riscontrano anche in altre categorie diagnostiche (disturbi d’ansia, depressione, abuso di sostanze, disturbi alimentari, schizofrenia e altri disturbi di personalità) e che molti degli individui che manifestano ricorrenti atti autolesionistici non soddisfano tutti i criteri necessari per la diagnosi del Disturbo Borderline di Personalità. Prima di tale classificazioni, nel DSM-IV (APA, 2000), i comportamenti autolesionistici, erano ritenuti come uno dei criteri identificativi del Disturbo Borderline di Personalità (BPD).
Quindi autolesionismo non vuol dire per forza disturbo borderline. L’associazione “si taglia?! è border!” che invece in passato veniva fatta immediatamente tra gli addetti ai lavori e non .
Quanto sono diffusi e a che età?
I disturbi autolesionistici rientrano nel sopracitato DSM V sotto la categoria dei disturbi diagnosticati generalmente per la prima volta nell’infanzia, fanciullezza e adolescenza..
L’autolesionismo, infatti, è molto diffuso tra gli adolescenti e i giovani adulti. L’incidenza di tale fenomeno in queste fasce d’età oscilla tra il 15-20% (Ross et al., 2002) e l’esordio si aggira tra i 13 e i 14 anni (Herpertz, 1995; Nock et al., 2006; Withlock et al. 2006, Ross et al., 2002). Secondo Stallard e colleghi (2013) i pensieri e comportamenti autolesivi si manifestano anche in soggetti minori di 14 anni: con una prevalenza nelle ragazze tra i 13 e i 14 del 22%.
Attualmente in Italia viene segnalato un tasso di incidenza che oscilla intorno al 30% degli adolescenti senza alcuna diagnosi psichiatrica, contro il 60% circa tra i malati psichiatrizzati (Cerutti & Manca, 2009; Cerutti et al, 2011).
In età adulta, invece, l’incidenza risulta essere del 6% (Briere & Gil, 1998; Klonsky, 2011).
Sia in adolescenza sia in età adulta l’incidenza dell’autolesionismo è più elevata tra la popolazione psichiatrica, in particolare tra i soggetti affetti da disturbi dell’umore e/o disturbi d’ansia, e nelle persone caratterizzate da alti livelli di disregolazione emotiva (Klonsky, 2003; Andover et al., 2005). L’autolesionismo in adolescenza è associato a depressione, stress, ansia, disturbi della condotta e abuso di sostanze (Nock et al., 2006), e con relazioni familiari disfunzionali, isolamento sociale e basso rendimento scolastico (Fliege et al., 2009).
Non solo tagli: le diverse forme dell’autolesionismo
In letteratura si parla di “Deliberate Self Harm” che significa “auto-danneggiamento intenzionale”. Può essere indiretto o diretto, episodico o ripetitivo e avere più o meno rischio di effetti letali. Ne esistono diverse tipologie
– “Self Harm” (auto-danno) condotte a rischio come l’abuso di sostanze psicoattive, la sessualità promiscua e il gioco d’azzardo;
-“Self Poisoning” (auto-avvelenamento) azioni quali l’ingestione di sostanze tossiche e l’overdose di droghe;
– “Self Injury” (auto-ferita) fenomeni immediati e intenzionali, come il tagliarsi o il bruciarsi.
Nello specifico ad oggi viene utilizzato spesso il termine self- cutting con riferimento nello specifico all’autoinflizione di tagli.
Le cause…perchè? Non è solo per attirare l’attenzione!
Una strategia di disadattiva di coping
“Tagliarsi non è un modo per cercare attenzione. Non è una manipolazione. É un meccanismo per affrontare i problemi, punitivo, gradevole, potenzialmente pericoloso, ma efficace. Mi aiuta a sopportare le forti emozioni che non so come gestire. Non ditemi che sono malato, non ditemi di smettere. Non cercate di farmi sentire in colpa, mi accade già. Ascoltatemi, sostenetemi, aiutatemi.”
Dal libro “Un urlo rosso sangue” di Marilee Strong.
La funzione primaria, nonchè la più condivisa dai ricercatori, ma anche dal vissuto stesso delle persone che ricorrono all’autolesionismo è quella della regolazione delle emozioni: quando queste diventano intollerabili, entra in gioco il ferirsi come tecnica di riduzione della tensione, di estinzione degli stati emotivi indesiderati (Chapman et al., 2006; Kamphuis et al., 2007) trasformandoli in una sofferenza fisica (quindi più reale e più facilmente gestibile) una sofferenza emozionale che non si sa come gestire, sul quale spostare l’attenzione. L’infliggersi dolore e la vista del proprio sangue consentono di avere un prova tangibile che la propria sofferenza è reale, che c’è qualcosa di concreto e visibile per cui provare dolore (Nock & Prinstein, 2004)..(Klonsky, 2007; DiLazzero, 2003).
Per molte persone si tratta anche di una forma di autopunizione o di espressione di rabbia autodiretta (Nock et al., 2008; Hooley & St Germain, 2013).
Un’altra funzione è quella del mostrare agli altri, attraverso delle evidenze fisiche, la propria sofferenza interiore (Klonsky, 2007).
Autolesionismo e suicidio?
Il legame c’è. Se pur il fine immediato delle condotte autolesive non è il suicidio, studi longitudinali hanno evidenziato che tali condotte sono un fattore predittivo di suicidio più forte di una serie di pregressi tentati suicidi (Asarnow et al., 2011; Guan et al., 2012; Wilkinson et al., 2011).
Dunque i comportamenti autolesionistici possono rappresentare un fattore di rischio per il suicidio perché legati alla disregolazione emotiva e relazionale e quindi anche al rischio di sviluppare un’ideazione suicidaria: con il passare del tempo desensibilizzano le persone dal dolore fisico e per questo aumentano la capacità di attuare il suicidio stesso.
Blue Whale e pro sef harm
Tutto ciò sta a sostegno del fatto che queste condotte e problematiche esistono con o senza Blue Whale.
Blue Whale, potrebbe essere diventato, tramite l’attenzione posta dai media, uno strumento di coercizione da parte di potenziali bulli così come anche di emulazione nei soggetti predisposti a comportamenti di autolesionismo. L’intento di questo articolo è di renderlo il parlare del fenomeno Blue Whale uno strumento per gettare luce su roblematiche preesistenti già prima della diffusione della “balena blu”. Favazza (2012) nella sua proposta di una classificazione delle varie tipologie di condotte autolesive, parla anche di autolesionismo moderato ripetitivo, in cui il soggetto si descrive come dipendente dal comportamento autolesivo, fino a farne un criterio costitutivo della propria identità (ad esempio definendosi un “cutter”) con appartenenza e ricerca di contatto con altri autolesionisti. Da anni si assiste al fenomeno del “pro self harm” ovvero dei prima blog e ora social (quali tmbler, facebook, youtube, instagram, snapchat ecc), dove vengono condivisi contenuti (foto, video, suggerimenti, pensieri) che promuovono le condotte autolesive (fenomeno già presente anche per quanto riguarda i disturbi alimentari: “pro ana”). Gli stessi social citati hanno col tempo inserito la possibilità di segnalare in un’apposita categoria l’esistenza di questi contenuti, un tentativo di arginare il fenomeno e degli avvisi di monito per chi effettua determinate ricerche su questi contenuti, ricordando che possono incoraggiare comportamenti che inducono dolore e anche la morte, invitando a chiedere aiuto se si sta vivendo una situazione di difficoltà.
Basta, insomma, fare una ricerca con le parole chiave o gli hashtag “giusti” e si può scoprire un oceano dove non naviga purtroppo solo la ormai famosa “balena blu”.
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