a cura di Chiara Del Nero, Sara Di Biase e Monica Ganni

Doping e Sport, Sport e Doping, parliamo di sport e subito dopo di doping o viceversa, come se questi due termini fossero in simbiosi, come se l’uno non potesse esistere senza la “compagnia” dell’altro. In effetti, se volessimo risalire alle loro origini per capire se è nato prima l’uno o l’altro, è possibile che finiremmo per imbatterci in uno di quei dilemmi del tipo “è nato prima l’uovo o la gallina?” senza trovare alcuna risposta certa; potremmo ipotizzare che sono nati pressappoco lo stesso giorno ovvero quando l’uomo si è trovato, per sua scelta (desiderio) o se per volontà di altri, a confrontare se stesso con un proprio simile o con un animale e che, fin da quel momento, abbia avuto la sensazione che per poter vincere, per potercela fare, per potersi salvare, per dimostrare di essere imbattibile e per ottenere il consenso sociale avesse bisogno di un “aiutino”.

Ancor più in quest’epoca – in cui la coscienza di sé passa dalla quantità di “like” accumulati sui social – la psicologia applicata allo sport, l’attenzione alle vecchie abitudini e ad una sana alimentazione, rischiano di essere scalzate dalle mode del momento. Soprattutto a livello amatoriale, dove vige di più il “fai da te”, si cercano spesso in rete rimedi, diete e programmi occasionali – magari più economici e poco scientifici che guidino verso il sogno di un riscatto.

La mentalità del ‘tutto e subito’ caratteristica dei nostri decenni ci spinge ad ambire alla prestazione immediata. Così, caratteristiche come perseveranza, duro lavoro, attesa e impegno prolungato sembrano esser robe di altri tempi. Oggigiorno, sembriamo diventati disposti a tanto pur di non restare indietro. Vulnerabili alla noia e ai sacrifici, diventiamo vulnerabili anche alle scorciatoie: ritocchiamo le foto anziché impegnarci in prima persona in qualcosa che migliori il nostro aspetto fisico. E dal ritocco virtuale al ritocco dei connotati – con la chirurgia o con polverine garanti di prestazioni straordinarie –  il passaggio è breve.

Il fatto è che viviamo (volutamente?) inconsapevoli del pericolo dell’introduzione di sostanze nel nostro complesso e delicato organismo. Siamo creati per prendere ciò di cui abbiamo bisogno dall’alimentazione, per esempio, ma ciononostante non riflettiamo sugli effetti collaterali che può provocare al sistema l’assunzione di alcuni tipi (e quantitativi) di sostanze sia sul versante fisico (fegato, cuore, sangue, organi sessuali …) che psicologico (disturbi d’ansia e/o dell’umore, irascibilità, ossessioni…).

Basta una volta per mettere in moto un processo a senso unico.

Il paradosso è che si può iniziare a fare sport per mettersi in forma per poi finire deformati.

È vero che doparsi può essere comune poiché il desiderio di riconoscimento – costi quel che costi – è insita nella natura dell’uomo ed è un’alternativa più rapida alla fatica quotidiana che posticipa la probabile ricompensa nel futuro; ma perché non ristrutturarsi lecitamente?

Quali sono le priorità nutrizionali per migliorare la prestazione fisica, aumentare la forza muscolare, accrescere la resistenza, ottimizzare il recupero?

Proviamo a fare una sintesi delle esigenze nutrizionali dell’organismo di un atleta:

  • Rispetto del fabbisogno energetico
  • Rispetto del fabbisogno proteico
  • Apporto idrico adeguato
  • Ripristino minerale di tipo selettivo
  • Controllo dell’ossidazione

È importante soddisfare il fabbisogno energetico dell’atleta per preservare, e se necessario incrementare, il patrimonio muscolare attraverso una stabilità del segnale dell’ormone leptina, proveniente dalle cellule adipose, all’ipotalamo, che induce a cascata la produzione di GH (ormone della crescita) da parte dell’ipofisi. Altrettanto preziosa per l’atleta è la disponibilità endogena di cortisolo, l’ormone che consente di far fronte allo stress ed anche al carico di lavoro sportivo nel periodo di maggior intensità. Anche in questo caso le corrette quantità di cortisolo sono modulate dalla leptina e quindi, ancora, da un sufficiente apporto di calorie quotidiano. Se la dieta di un atleta fosse ipocalorica, inferiore al suo fabbisogno effettivo, genererebbe un segnale di “carestia” o di emergenza al quale corrisponderebbe presto un rallentamento metabolico, un calo della massa muscolare e una tendenza, appena finita la restrizione calorica, all’accumulo del grasso. Anche dal punto di vista dell’umore l’ipocaloricità genera stanchezza, poca voglia di fare, depressione generale, frustrazione.  All’atleta serve anche assumere una quantità adeguata di proteine, un altro fattore in grado, se non rispettato, di minare le capacità dell’organismo di fare massa muscolare e di tenere alto il metabolismo (le proteine servono all’organismo non solo per fare muscolo ma anche per la sintesi di ormoni, recettori, enzimi, citochine, immunoglobuline, molecole di trasporto ecc.) e alla lunga di generare catabolismo con impoverimento della massa magra. La quota proteica deve essere bilanciata in base agli sforzi, aumentandola in relazione al carico di lavoro.

L’idratazione rappresenta una delle esigenze prioritarie nell’atleta. Vi sono studi che documentano come una carenza idrica anche del solo 5% del peso corporeo sia già in grado di ridurre la prestazione del 10%! L’acqua, quindi, richiede un attento ripristino nell’atleta, sia in condizioni di allenamento che di gara. Chi fa sport, e in particolare chi produce quantità di sudore molto elevate, ha necessità di reintegrare, oltre all’acqua, anche i sali minerali persi durante l’attività. In caso di sudorazione lenta i dotti della ghiandola sudoripara sono in grado di recuperare la maggior parte del potassio e del magnesio, mentre una sudorazione intensa può fortemente depauperare l’organismo di questi preziosi elementi, che devono essere prontamente ripristinati.  Frutta, verdura, cereali integrali e frutta oleosa sono indispensabili per l’apporto di questi minerali nell’alimentazione quotidiana. Da segnalare, che un altro preziosissimo minerale di cui l’atleta ha un gran bisogno è il ferro: la riduzione dell’emoglobina, tipica dell’“anemia dell’atleta”, diminuisce l’apporto di ossigeno ai muscoli e, di conseguenza, riduce sensibilmente la prestazione.

Infine, l’attività fisica intensa genera ossidazione cioè il mitocondrio (la centralina energetica della nostra cellula) produce naturalmente “scarti” durante il suo lavoro, i cosiddetti radicali liberi, che devono essere contrastati con efficienza da sostanze naturali che hanno specifica funzione antiossidante: la vitamina C (agrumi, kiwi, peperoni ecc), A (carote, meloni, mirtilli ecc) ed E (verdure a foglia verde, olio di oliva extravergine ecc) e  tra i minerali il selenio (cereali integrali, noci brasiliane ecc), prezioso cofattore di alcuni enzimi antiossidanti.

Le basi biologiche della prestazione stanno dentro a pochi importanti parametri: un’alimentazione quantitativamente e qualitativamente corretta, in grado di apportare tutti i nutrienti necessari e con un’adeguata quantità di proteine quotidiana.

Lo stato nutrizionale dell’atleta può essere controllato mediante l’esame della composizione corporea tricompartimentale, in grado cioè di misurare separatamente acqua (totale, intra ed extracellulare), muscolo e massa grassa, utilizzando come strumento un bioimpedenziometro (BIA). In questa maniera può essere adeguato l’apporto dei vari nutrienti ed elaborato un piano di integrazione per lo sportivo, evitando che il meccanismo di acquisizione mentale del “bisogno” di migliorare la prestazione sportiva si basi su false o carenti informazioni scientifiche.

Detto questo potremmo porci un quesito: e se per un attimo provassimo a mettere al centro l’essere umano, colui che con i suoi gesti atletici ha fatto nascere e mantiene in vita da sempre lo Sport? È possibile che la vera differenza consista proprio nel puntare i riflettori sull’atleta nella totalità e complessità; l’idea è quella di studiare la persona, conoscere come funziona al fine di trovare l’equilibrio che c’è tra il suo fisico, il suo cuore e la sua testa, tarando senza tralasciare nessun parametro, riconoscendo le sua potenzialità e, allo stesso tempo validando e legittimando i suoi “limiti”.

È possibile che il punto sia proprio questo: la validazione dei “limiti”, accoglierli, comprendere fino a dove possono essere “migliorati” ma, soprattutto, accettare che esistano. Utopia? Forse.

In una società che impone canoni elevati, l’individuo cresce con l’idea di “non poter fallire” e di “non poter essere meno” e crede che “per avere successo e per diventare un atleta top devi assolutamente ricorrere al doping; la combinazione perfetta tra allenamento e doping ti porta a volare in alto”. Lavorare sul diritto di essere un essere umano e non una macchina che “spara risultati”, fare spazio all’idea che “sbagliare non è perdere, ma la continuità è la possibilità di giocare e magari vincere” (A. Agassi) potrebbe essere l’occasione per mettere in discussione che “non ci resta che doping!!” è solo una delle tante credenze e niente più.