a cura del Dott. Jonathan Lisci

Si stima che in Italia vi siano quasi 3 milioni di disabili. Tra questi circa 165.000 vivono all’interno di strutture residenziali, mentre la restante parte vive in famiglia.

Tuttavia non è di numeri che intendo parlare in questo breve articolo, ma di quello che le istituzioni fanno e potrebbero fare in materia di disabilità. Nel trattare l’argomento farò riferimento alla mia esperienza di psicoterapeuta ed educatore con bambini ed adolescenti disabili.

Per affrontare questo delicato tema, che non ho la presunzione di esaurire in queste poche righe, parto dal chiarire il mio punto di vista rispetto ad una questione sottile e di difficile soluzione, che è spesso oggetto di discussione. Quante volte sarete stati ripresi dall’amico di turno perché avete utilizzato il termine “Disabile”. In egual modo quante volte vi avranno invitato a preferirgli il “Diversamente abile”?. Sono dell’avviso che si tratti di una questione davvero difficile da dirimere, talmente difficile che sarebbe opportuno dedicare maggiori energie alla sostanza piuttosto che alla forma. Lungi dal voler sembrare superficiale o insensibile, ci tengo a sottolineare che il mio punto di vista in materia è sostenuto dal sentire quotidiano. Quando penso infatti a quale sia la forma più corretta da utilizzare, cercando cioè di rispondere all’interrogativo che persone più qualificate di me (medici, legislatori, accademici, ministri, prelati ecc…) si sono spesso poste, difficilmente riesco a trovare una risposta soddisfacente se non che la risposta non sia da cercare negli anfratti più reconditi della glottologia, nella stucchevole retorica del politically correct, ma nella relazione. Varrebbe la pena che chi ha il compito di dettar legge, dedicasse meno tempo a tediose riunioni da accademia della crusca e lo impiegasse in maniera più proficua, magari passando una giornata con una ragazzo disabile o incontrando chi (educatori, assistenti sociali, genitori ecc…) trascorre con loro del tempo condividendone desideri, ambizioni, progetti e passioni. Probabilmente si renderebbe conto di quanto i ragazzi siano disposti a derogare sulla forma purché si investa sulla sostanza, e quando parlo di sostanza parlo di relazione.

Potrei spendere molte parole sul concetto di relazione e magari ci saranno altre occasioni per farlo, ma una cosa mi preme sottolinearla ed ha sempre a che fare con la mia esperienza di terapeuta ed educatore. Inizialmente, quando ero alle prime armi, mi sono spesso trovato nell’impasse di decidere quale comportamento adottare per non urtare la sensibilità del ragazzo o del bambino che mi trovavo davanti. Mi sono domandato se fosse opportuno rimproverarlo, manifestare emozioni spiacevoli come la noia, la rabbia, l’apprensione. Pian piano ho compreso quanto questi interrogativi fossero da ostacolo all’obiettivo stesso per cui erano sorti, quanto quel continuo rimuginare fosse un impedimento al raggiungimento dell’empatia che andavo cercando. Solo quando ho posato lo scudo ed ho tolto l’armatura ho cominciato ad avvicinarmi a quello che desideravo. Solo decidendo di non decidere, sospendendo il giudizio e ponendomi in posizione di ascolto, sono riuscito davvero a trovare quella complicità e quella sintonia da cui prima inconsapevolmente mi allontanavo. Ho compreso che il modo migliore per entrare in relazione era trascorrere del tempo con i ragazzi. E’ in quel momento che ho scoperto veramente quanto quello fosse il modo migliore di rispondere alle loro esigenze, alla loro necessità di integrazione. Ne è nato un modo di approcciarmi giocoso, ironico, scherzoso ed empatico che ha aiutato loro, ma soprattutto me, in un percorso di crescita professionale e personale.

Starete pensando che la sto facendo lunga, che c’è bisogno di investimenti, di progetti, di interventi e di soluzioni, non di chiacchiere. Certamente, sono d’accordo, ma se a tutto ciò non si fa precedere la relazione, si rischia di perdere tempo, risorse e forze, in misure pietose, inefficaci e capziose. Se non si investe sulla relazione si rischia di sperperare risorse in interventi fotocopia basati sul dogma del “Siamo tutti uguali”. Niente di più inutile se non dannoso. Questo perché siamo tutti diversi e la soluzione non è dare a tutti in egual misura in termini materiali ed economici, bensì dare a tutti il medesimo spazio per esprimere le proprie esigenze, i propri bisogni e le proprie richieste. Si chiama equità ed è una questione di dignità. E’ il riconoscere a chiunque quella “libertà di scelta” che spesso viene negata in luogo della presunzione di poter prendere decisioni per altri, con la convinzione di conoscere ciò che è più giusto per loro.

Per evitare che ciò accada si deve ricorrere alle professionalità operanti nel campo, strutturando interventi misurati sulle esigenze del singolo individuo, che emergono dal confronto quotidiano con educatori, assistenti sociali, neuropsichiatri ed altre figure operanti sul territorio.

Ad onor del vero questo, in realtà particolarmente virtuose, già si fa, grazie al prezioso lavoro di professionisti adeguatamente e costantemente formati, capaci di rispondere in maniera efficace alle necessità dei ragazzi.

E’ necessario quindi prendere spunto ed affidarsi a queste professionalità, riconoscendo loro la possibilità di investire sulle proprie capacità, con l’obiettivo ultimo e forse utopistico di creare una società accessibile, ovvero una società che consenta a tutti la possibilità di partecipare, di fare, in una parola: di essere.

Per comprendere al meglio quanto ho cercato di esprimere in queste poche righe, vi consiglio di guardare “Due piedi sinistri”, cortometraggio di Isabella Salvetti che riassume in pochi minuti ciò che sarebbe difficile dire a parole.