a cura della Dott.ssa Giovanna Panichi
“Volti che mi guardano e aspettano….ma cosa? Io non capisco. Uno di loro si avvicina, sembra arrabbiato, lo intuisco da come aggrotta la fronte, poi se ne va….probabilmente sta imprecando sotto la mascherina. Un altro scuote la testa, mentre la donna di fianco a lui continua a fissarmi senza distogliere lo sguardo…un suono acuto…Prendo il foglietto dalla tasca del camice, lo apro e lo mostro ai due che si irrigidiscono leggendolo: Sono sorda, c’è scritto”.
Questa è una di quelle situazioni che capitano spesso a F., operatrice sanitaria in una struttura ospedaliera, sorda sin dalla nascita; il Covid le ha tolto ciò che aveva conquistato con fatica negli anni dell’infanzia: la capacità di comunicare efficacemente con gli altri. Sì, perché quei dispositivi che ci garantiscono l’incolumità dal virus sono gli stessi che impediscono a lei, e a tutte le persone audiolese, di vedere il movimento delle labbra, indispensabile per la comprensione linguistica.
Stare tutta la giornata con la mascherina, cercando di capire soltanto dagli occhi, costituisce un doppio stress a cui la persona sorda si sottopone e se già, in termini scopistici, il distanziamento sociale va ad inficiare la nostra necessità di vicinanza fisica con l’altro proprio nel momento in cui pericolo e incertezza ne attivano ancor più il bisogno, questa barriera comunicativa compromette, per la persona ipoudente, la possibilità di essere autonoma nella quotidianità.
“Io porto l’apparecchio acustico dall’età di 6 anni e ancora prima ho imparato a leggere il labiale, ma in questo preciso momento storico, in ospedale, mi sento come chiusa in una bolla; non capire quello che mi viene detto da chi ho di fronte mi fa sprofondare in un inferno di solitudine! Per fortuna, i miei colleghi mi conoscono, mi vogliono bene e fanno di tutto per favorirmi: ci serviamo di una lavagnetta o di semplici foglietti di carta per comunicare e devo dire che spesso mi strappano un sorriso, aggiungendo battute o disegni poco ortodossi. Però non posso fare a meno di pensare alla faticosa gestione della mia vita all’esterno, fuori da lavoro e dalle mura domestiche, perché chissà per quanto tempo io e altri 5 milioni di italiani saremo costretti in questa condizione di dipendenza”.
Nel seguito della nostra intervista via whatsapp, F. mi parla della difficoltà da parte della comunità sorda, all’inizio della pandemia, nel reperire informazioni utili sull’emergenza, non essendoci servizi predisposti ai non udenti, per non parlare di alcune di queste persone ricoverate a causa del coronavirus e per le quali era impossibile l’accesso ai dati riguardanti il proprio stato di salute, salvo l’unico “conforto” consistente in poche parole scritte dal personale sanitario in un cartoncino.
Discutiamo allora di quella sorta di “visiera” che lascia il volto libero, perché protetto dal plexiglas:
“Quella è un’ottima idea e molti professionisti la usano, però quel tipo di dispositivo ha costi molto più elevati ed è decisamente poco pratico da portare, quindi difficilmente le persone sono incentivate ad acquistarlo…”
Tali difficoltà, legate a questo particolare periodo, vanno a sommarsi ad una condizione di separazione in cui già si trova parte del “mondo non udente”: alcune persone con un difetto uditivo, infatti, manifestano sintomatologie peculiari rispetto alla condizione di sordità, quali pensieri automatici e credenze disfunzionali riguardo alle persone udenti e/o alla sordità stessa, tanto che molti di loro si sforzano di essere “il più udenti possibile”; altri, invece, si identificano con la comunità dei sordi, contrapponendosi in modo netto rispetto al “mondo udente”.
La somma di tutti questi fattori, ovvero gli stressor legati al deficit uditivo e una condizione d’isolamento prolungata, potrebbero a lungo termine generare conseguenze sullo stato di salute della persona anche molto gravi: un’analisi pubblicata dalla rivista medica The Lancet su più di venti studi sulla quarantena durante le epidemie di Sars, Mers, Ebola e altre malattie, evidenzia diversi effetti psicologici negativi legati a tali eventi: emozioni di ansia, disorientamento, rabbia, senso di vuoto e rassegnazione, fino ad arrivare, laddove non ci siano sufficienti risorse di fronteggiamento emotivo, allo sviluppo di veri e propri quadri psicopatologici.
Chiedo dunque a F. come sta affrontando la vita di tutti i giorni con tutti questi limiti.
“Faccio quello che mi fa stare meglio, incentrandomi maggiormente sulle attività con la mia famiglia, domestiche e non, ed esco di casa sempre provvista di un taccuino ed una penna, soprattutto se ho intenzione di recarmi in luoghi pubblici o affollati. L’unico aspetto positivo è che non devo seguire per forza i discorsi che non mi interessano!”
La testimonianza di F., non priva di un pizzico di ironia, mette in luce quanto sia rilevante, in alcuni momenti critici della vita, ai fini di un buon equilibrio psicofisico, fare spazio ad emozioni negative che inevitabilmente li accompagnano, quali tristezza, paura e…perché no? anche rabbia e, anziché impiegare le nostre energie per combattere tali sentimenti, orientare l’attenzione verso azioni utili a far fronte alle difficoltà, attingendo alle risorse disponibili, tra le quali possono svolgere un ruolo fondamentale le persone a noi più care.
Per approfondimenti:
- Carta S., Fadda S., Sordità e Salute Mentale, Edizioni Kappa, Bologna 2007.
- Harris R., Fare ACT, Franco Angeli, Milano 2011.
- Perdighe C., Mancini F., Elementi di psicoterapia cognitiva, Giovanni Fioriti Editore, Roma 2010.