“Io sono l’Amore che non osa pronunciare il proprio nome”.
(Alfred Douglas, Two Loves, 1892)*
di Chiara Lignola, psicologa, psicoterapeuta
La Giornata internazionale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia (o IDAHOBIT, acronimo di International Day Against Homophobia, Biphobia and Transphobia) si celebra dal 2004 il 17 maggio di ogni anno. La data coincide con la decisione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) il 17 maggio del 1990, di rimuovere l’omosessualità dalle malattie mentali cioè dall’International Classification of Disease (ICD). Sono quindi ad oggi trascorsi solo 28 anni da tale decisione, troppo pochi ancora per poter abbattere l’ignoranza, le discriminazioni e il mancato accesso a diritti fondamentali. In Italia si è trattata della seconda ricorrenza dopo l’approvazione della legge sulle unioni civili, ancora oggi il dibattito è aperto su l’acceso sui temi della genitorialità e del matrimonio.
Tanto è stato fatto, ma ancora gli episodi di omofobia sono parte della nostra quotidianità, non solo i terribili fatti di violenza che leggiamo sui giornali e sui social ma esiste un mondo sommerso quotidiano che non sempre viene denunciato e portato a galla. Essere eterosessuali appare ancora un dato di fatto scontato associato alla concezione di ciò che è normale ed accettabile. Al tempo stesso, paradossalmente quanto è stato fatto contro la cultura omofobica , sembra aver favorito la nascita di altri stereotipi, falsamente positivi come “gli uomini gay sono sempre ben vestiti e curati”; “gli uomi gay sono divertenti e allegri”“gli omosessuali guadagnano di più degli eterosessuali”; “per le donne eterosessuali è meglio avere un amico gay con cui parlare” ecc. come riportato dallo studio Ahmad, S., & Bhugra, D. (2010) e incrementando la spinta a contrastare le persone LGBTQ (ndr: lesbiche gay bisessuali transgender queer) perché potenzialmente potrebbero acquisire posizioni di rilievo nel panorama politico, artistico e socio-culturale (Bhugra, 2010).
Il presente articolo si propone di offrire una panoramica sulla posizione attuale del mondo scientifico e sull’aiuto che può offrire la psicoterapia, in particolare cognitivo comportamentale alla sofferenza psichica determinata dagli effetti dell’omofobia. L’intenzione non è sottovalutare le altre varianti che questa giornata ricordano (bifobia e transfobia) nonché avere un atteggiamento riduttivo sulle sfumature possibili dell’orientamento sessuale, dell’identità di genere, dell’identità sessuale e dei vissuti ad essi correlati, ma di stimolare la consapevolezza e la riflessione su questi temi e di invitare se mai ad approfondimenti.
Un po’ di storia
Già nel 1973 il consiglio dell’American Psychiatric Association, con un referendum, tolse l’omosessualità dai disturbi mentali, (Rigliano, Ciliberto & Ferrari, 2012). Negli anni ‘70 mosso dalle evidenze scientifiche a favore dell’omosessualità come costruzione mentale e relazionale affettiva al pari dell’eterosessualità (Rigliano & Graglia, 2006; Blackwell, 2008).
Fino alla metà del ‘900, infatti, gli omosessuali erano ritenuti da curare e il tutto con pratiche spesso estreme che prevedevano l’asessualizzazione o la riconversione all’eterosessualità, attraverso interventi chirurgici di asportazione dei genitali esterni e interni, terapie ormonali, elettroshock e persino la lobotomia (Graglia, 2009; Falco, 1991). La letteratura scientifica riconosce le famiglie gay e lesbiche al pari delle famiglie etero: “famiglie equivalenti, negli aspetti principali, a relazioni e famiglie eterosessuali.” (American Psychologist, 2012); L’American Academy of Child and Adolescent Psychiatry (AACAP) (2011) dichiara: “Non ci sono prove a sostegno della tesi per cui genitori con orientamento omo o bisessuale siano di per sé diversi o carenti nella capacità di essere genitori, di saper cogliere i problemi dell’infanzia e di sviluppare attaccamenti genitore figlio, a confronto di genitori con orientamento eterosessuali”.
Le terapie riparative oggi
Purtroppo qualcuno ci prova ancora. Ancora oggi Charles Socarides, Benjamin Kaufman e Joseph Nicolosi (2010), (quest’ultimo scomparso lo scorso anno) promuovono le terapie chiamate “riparative” o di “conversione” o di “riorientamento” dove l’omosessualità è vista come un problema emotivo, frutto di bisogni insoddisfatti nella relazione con i genitori. Nicolosi insieme a Socarides e Benjamin Kaufman hanno fondato nel 1992 la National Association for Research & Treatment of Homosexuality (NARTH) presente anche in Italia e che nel suo statuto rivendica “il diritto di ricorrere ad una terapia per cambiare il proprio orientamento sessuale”. Anche in Italia dunque esistono esponenti di tali che affermano concetti quali “L’omosessualità è un sintomo di un problema emotivo e rappresenta bisogni emotivi insoddisfatti … del corpo umano. quando guardiamo alla funzione del corpo umano, l’omosessualità non è normale. E’ un sintomo di qualche disordine.“ afferma Marchesini (2004).
Tali terapie hanno una impostazione politica, religiosa e fondamentalista, e sono basate su premesse ideologico-religiose e non clinico-scientifiche (Rigliano et al., 2012; Graglia, 2009; Lingiardi, 2007).
Nel 2009, il Royal College of Psychiatrists ha dichiarato che “condivide le perplessità dell’American Psychiatric Association e dell’American Psychological Association, riguardo al fatto che le posizioni esposte da parte di organismi come l’Associazione nazionale per la ricerca e la terapia dell’omosessualità (NARTH) negli Stati Uniti non sono supportate dalla scienza”.
In un comunicato del 19 luglio 2011 ribadisce il Consiglio Nazionale degli Psicologi “ribadisce che l’omosessualità non è una malattia da curare, né un orientamento sessuale da modificare: affermare il contrario è una informazione scientificamente priva di fondamento e foriera di un pericoloso sostegno al pregiudizio sociale”.
Cos’è l’omofobia?
Partiamo dal termine stesso “omofobia” coniato dallo psicologo americano George Weinberg (1972) per definire la paura di essere in stretto contatto con omosessuali ma anche l’odio e l’intolleranza da parte di individui eterosessuali nei confronti di uomini e donne omosessuali.
In genere per “fobia” si intende una paura (dal greco φόβος, phóbos, “panico, paura”) irrazionale e persistente, una repulsione per determinate situazioni, oggetti, attività, animali o persone, che può, nei casi più gravi limitare l’autonomia del soggetto che tende ad evitare l’oggetto” temuto. L’analisi etimologica del termine porterebbe a pensare ad un’accezione psicopatologica che inserirebbe l’omofobia all’interno della categoria diagnostica dei disturbi d’ansia come fobia specifica ma essa non soddisfa i criteri diagnositci necessari: l’omofobo ritiene “normale” e giustificato il suo atteggiamento nei confronti di persone LGBT, non vive con disagio la propria omofobia né sente il bisogno di allontanarla (Lingiardi, 2007) e può alternare evitamento a aggressività nei confronti di persone LGBT.
Il termine viene invece utilizzato con un’accezione per lo più non clinica: omofobia come pregiudizio. L’omofobia comprende un’insieme di credenze personali e sociali sull’omosessualità vista come patologica, immorale, contronatura, pericolosa e la non condivisione dei comportamenti omosessuali e delle rivendicazioni sociali e giuridiche delle persone omosessuali, fino a tutte le azioni di discriminazione verso le persone LGBT, sia passivi che esplicitamente violenti verbalmente o fisicamente (interessante è la suddivisione proposta da Blumenfeld, 1992, in quattro categorie: omofobia personale, interpersonale, istituzionale e sociale).
Cosa determina l’omofobia?
Secondo Szymanski (2004) gli atteggiamenti negativi contro persone LGB non sono necessariamente irrazionali o il riflesso di una paura, ma possono essere delle scelte intenzionali contro la minaccia percepita dal gruppo dominante, o comunque finalizzata ad imporre valori culturali e religiosi. Secondo Herek (1988) gli atteggiamenti verso la sessualità e l’orientamento sessuale vengono appresi dall’ambiente e sono quindi un costrutto sociale ed è maggiormente presente, secondo il suo studio, dall’età avanzata; scarsi contatti e/o conoscenze di persone omosessuali. l’atteggiamento conservatore rispetto ai ruoli di genere e un forte indottrinamento religioso.
L’omofobia interiorizzata
Per omofobia interiorizzata si intende quell’insieme di sentimenti negativi (ad esempio ansia, disprezzo, avversione) che gli omosessuali provano nei confronti dell’omosessualità, propria e altrui, cioè verso i sentimenti omoerotici, i comportamenti omosessuali, le relazioni tra persone dello stesso sesso, l’autodefinizione come gay o lesbica (Meyer, 1995).
L’omofobia interiorizzata è determinata dell’accettazione passiva (consapevole e soprattutto inconsapevole) da parte delle persone omosessuali, di tutti i pregiudizi, i comportamenti e le opinioni discriminatorie tipici della cultura omofoba in cui siamo immersi e incide profondamente, come agente patogeno, sul benessere delle persone omosessuali.
L’omofobia interiorizzata può avere un impatto profondo sull’individuo, facendolo sentire sbagliato e causando bassa autostima, difficoltà relazionali, isolamento e autoesclusione sociale, sensi di colpa e vergogna, sintomi di tipo depressivo o ansioso, angoscia. Tutto ciò può sfociare in pensieri suicidi e attività ad alto rischio (ad esempio, sesso non protetto o abuso di alcool o sostanze stupefacenti).
Effetti dell’omofobia e dell’omofobia interiorizzata
La psicologia affermativa consideri l’omofobia come la principale variabile patologica nell’insorgenza di condizioni sintomatologiche nelle persone omosessuali (Malyon, 1982).. Secondo la letteratura le discriminazione omofobiche subite nelle scuole, nei luoghi di lavoro e negli altri ambienti sociali, espongono a un maggior rischio di disturbi dell’umore e consumo di sostanze (Barbagli e Colombo, 2001; Marquet 2008). Le ricerche evidenziano infatti come atti di bullismo in fase adolescenziale siano fortemente correlati con l’omofobia (Lingiardi, 2009). Meyer (1995) parla di minority stress che comprende tre aspetti: l’omofobia interiorizzata, lo stigma percepito e le esperienze vissute di discriminazione e violenza.Vari studi indicano che il minority stress sembra avere una correlazione significativa con sintomi depressivi, senso di colpa, problemi sessuali, pensieri di morte e tentativi di suicidio, aumentando in maniera esponenziale il rischio di danno psicologico nelle persone omosessuali ( D’Augelli & Grossman , 2001; Graglia, 2009; Rigliano & Graglia, 2006; Rigliano, Ciliberto & Ferrari, 2012,).
Rischio suicidio
Secondo i dati riportati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (2005), almeno un terzo dei suicidi di adolescenti in Italia è legato alla scoperta della propria omosessualità, in Europa il 25% dei suicidi fra età compresa fra i 16 e i 25 anni è attribuibile all’ omofobia.
Le variabili correlate al rischio suicidario sembrano essere: la precoce consapevolezza del proprio orientamento sessuale; la decisione di non rivelarlo a nessuno; la mancanza di una rete di supporto durante il coming out; il conflitto rispetto al proprio orientamento sessuale; la discrepanza rispetto al ruolo di genere; l’atteggiamento dei genitori invalidante sul tema (Graglia, 2009).
Cosa può fare lo psicologo?
L’American Psychological Association (APA) definisce “affermative”, tutte quelle prospettive psicoterapeutiche che riconoscano la legittimità dell’orientamento omosessuale e bisessuale e che si oppongono alla possibilità di modificarlo con una terapia (American Psychological Association, 2010; Rigliano, Ciliberto & Ferrari, 2012).
Tra le linee guida dell’American Psychologist Association (American Psychologist, 2012) troviamo le seguenti indicazioni: “gli psicologi si adoperano per comprendere gli effetti dello stigma (pregiudizio, discriminazione e violenza) e le relative varie manifestazioni contestuali nella vita delle persone lesbiche, gay e bisessuali”; “gli psicologi sono esortati a riconoscere come i loro atteggiamenti verso le problematiche della persone lesbiche, gay e bisessuali possano essere rilevanti durante l’assessment (ndr.valutazione) ed il trattamento e come debbano cercare consultazioni o fare appropriati riferimenti quando è opportuno; ”Gli psicologi si adoperano per distinguere le problematiche legate all’ orientamento sessuale da quelle dell’identità di genere quando lavorano con clienti lesbiche, gay o bisessuali”; “psicologi si adoperano al fine di acquisire conoscenza rispetto all’importanza delle relazioni lesbiche, gay e bisessuali.”
L’approccio cognitivo comportamentale
All’interno della terapia cognitivo comportamentale, l’orientamento sessuale del paziente verrà posto come oggetto della terapia solo se le sue credenze a riguardo saranno connotate negativamente. Il terapeuta cognitivista porrà la sua attenzione sulla sofferenza e sul disagio che provoca nel paziente, indagare quali siano i pensieri automatici negativi e le credenze disfunzionali della persona
Attraverso la validazione dei pensieri e delle emozioni del paziente, guidandolo verso l’esplorazione del proprio orientamento sessuale e aiutandolo ristrutturare le credenze disfunzionali verso di esso in favore di alternative maggiormente funzionali per il suo benessere psichico e per una migliore qualità di vita (Liotti & Tombolini, 2006).
Citando Liotti e Tombolini (2006): «il principio fondamentale che guida la psicoterapia cognitiva con questo tipo di popolazione clinica è il rispetto assoluto dell’esperienza soggettiva autentica del paziente circa le proprie disposizioni all’omosessualità o all’eterosessualità (…).Il che significa rispetto assoluto di quanto i pazienti presentano come propria scelta di orientamento sessuale, che non viene mai considerata patologica in sé, ma anche il rispetto altrettanto assoluto di eventuali dubbi dei pazienti circa tale orientamento”
Il fine della psicoterapia cognitiva con persone omosessuali non è certo, concludono Liotti e Tombolini (2006) ”uniformare ad una qualsivoglia variante della sessualità umana il comportamento dei pazienti, ma sostenere la loro libertà ed autonomia nella scelta del modo di sperimentare la propria sessualità, purché questo non procuri sofferenza od umiliazioni a sé o all’altro con il quale si entra in relazione, e non limiti la propria e l’altrui libertà e progettualità “.
*Lord Alfred Bruce Douglas, Marchese di Queensberry, (Worcestershire, 22 ottobre 1870 – Lancing, 20 marzo 1945), poeta uraniano, scrittore e traduttore britannico, ricordato soprattutto come compagno dello scrittore Oscar Wilde.
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