a cura del Dott. Dario Pappalardo
Non è passato molto tempo da quando i videogiochi sono stati annoverati dall’ Organizzazione Mondiale della Sanità tra le cause di dipendenza e di disturbo mentale (categorizzato in ICD-11, capitolo V – Mental and behavioural disorders – F00-F99 – Mental disorder, not otherwise specified) anche se La revisione dell’ICD entrerà in vigore il primo gennaio 2022. Eppure, sembra che il Covid-19 abbia fatto registrare un’inversione di tendenza nel pensiero dell’agenzia di base a Ginevra, che in collaborazione con diverse software house, sta promuovendo l’iniziativa #PlayApartTogether, con la quale sostiene il potere terapeutico dei videogiochi durante la quarantena, promuovendo allo stesso tempo l’adesione alle regole attraverso l’inserimento all’interno dei giochi di messaggi fondamentali di rispetto delle norme di distanziamento sociale.
Diciotto leader delle più grandi aziende del settore, tra cui Activision Blizzard, Snap Games, Amazon Appstore, Twitch, Big Fish Games, Riot Games, YouTube Gaming e Zynga, solo per citarne alcune, hanno lanciato l’iniziativa in alcuni dei giochi più popolari al mondo, attraverso l’offerta di eventi speciali, contenuti esclusivi, attività e premi.
L’iniziativa è controversa, se non altro per gli ovvi interessi commerciali e d’immagine che si consumano dietro di essa. Ma lo è anche, ed è questo il tema cruciale per gli operatori della salute mentale, per il rischio di legittimare un comportamento che miete pazienti nell’alveo della più giovane delle dipendenze senza sostanza. Quella per i videogiochi.
La dipendenza da videogame, o gaming disorder, è definita come “una serie di comportamenti persistenti o ricorrenti legati al gioco, sia online che offline, manifestati da:
1. un mancato controllo sul gioco, una sempre maggiore priorità data al gioco, al punto che questo diventa più importante delle attività quotidiane e sugli interessi della vita;
2. una continua escalation del gaming nonostante conseguenze negative personali, familiari, sociali, educazionali, occupazionali o in altre aree importanti”.
Per diagnosticare la malattia – spiega l’Oms – occorre “che nel comportamento del giocatore compaia una compromissione significativa nelle aree della sfera personale, familiare, sociale, educativa, e professionale.
Nell’ormai decennio scorso il gioco online è aumentato notevolmente di popolarità, con conseguenze non marginali. Indagini nazionali hanno mostrato percentuali di prevalenza di dipendenza da videogiochi del 10-15% tra i giovani in diversi paesi asiatici e dell’1-10% in alcuni paesi occidentali (Saunders et al., 2017). E con l’esplosione dei MMORPG (Massive(ly) Multiplayer Online Role-Playing Game) anche sugli smartphone, il fenomeno si è ulteriormente aggravato, per la semplicità e anche gratuità di accesso a queste piattaforme.
Il gaming disorder condivide molte caratteristiche con le dipendenze da sostanze psicoattive e da gioco d’azzardo, come anche da internet; è stato infatti dimostrato che vengono coinvolte e attivate le stesse aree cerebrali (McBride e Derevensky, 2016), e si associa alle medesime dipendenze fin dall’età preadolescenziale (Van Rooij et al., 2014).
Il fenomeno è dilagante, e ovviamente, in tempi di covid-19 rischia di diventare ancora più grave, sia durante il lockdown, sia in occasione della ripresa delle attività.
Se dovessimo rendere l’idea di cosa significa chiudere in casa per due mesi un gamer patologico, può essere evocativo pensare ad un alcoldipendente chiuso in una cantina vinicola per lo stesso periodo di tempo. Non a caso tutte le dipendenze stanno esplodendo in questo periodo e non è certo qualche messaggio da sito di scommesse come “gioca responsabilmente” che potrà limitare l’onda esponenziale di nuovi casi o di aggravamenti di casi già accertati.
Solo dopo aver considerato tutti questi rischi è possibile pensare anche ai lati positivi, che non sono pochi:
- La possibilità, attraverso alcune tipologie di gioco, di migliorare i processi cognitivi come la memoria, l’attenzione e il pensiero logico;
- gli indubbi benefici a livello di interazione sociale come la condivisione del tempo di gioco con gli amici, lo sforzo collaborativo di sviluppo di strategie per risolvere problemi, completare missioni e prendere decisioni di gruppo.
- La possibilità di utilizzare il gioco come strumento di gestione degli impulsi, dello stress e dell’emotività. In questo caso il gioco rappresenterebbe una parte di una strategia di coping atto a distanziarsi dagli accessi e dagli eccessi, un vero e proprio hobby piacevole, e talvolta rilassante.
- La ricchezza di varie modalità di gioco, dai giochi di ruolo, ai giochi di logica, a quelli di strategia, fino ai semplici giochi platform 2D, rendono possibile variare lo stimolo e quindi le risposte necessarie al completamento della missione di gioco
Sono tutte abilità e caratteristiche (definite soft skill) che in alcuni casi vengono ricercate anche in occasione di selezioni per posizioni lavorative o progetti di Team Building.
Il gioco fa parte dell’essere umano, le regole sono invece necessarie in una comunità per lo sviluppo della stessa.
McBride J., Derevensky J. (2016). Gambling and video game playing among youth. Journal of Gambling Issues, 34, 156–178.
Saunders J. B., Hao W., Long J., King D. L., Mann K., Fauth-Bühler M., Rumpf H.J., Bowden-Jones H. , Rahimi-Movaghar A., Chung T., Chan E., Bahar N., Achab S., Lee H.K., Potenza M., Petry N., Spritzer D., Ambekar A., Derevensky J., Griffiths M.D., Pontes H.M., Kuss D., Higuchi S., Mihara S., Assangangkornchai S., Sharma M., Kashef A.E., Ip P., Farrell M., Scafato E., Carragher N., Poznyak V. (2017). Gaming disorder: Its delineation as an important condition for diagnosis, management, and prevention. Journal of Behavioral Addictions, 1; 6(3), 271-279.
Van Rooij A. J., Kuss D. J., Griffiths M. D., Shorter G. W., Schoenmakers T. M., Van de Mheen D. (2014). The co-occurrence of problematic video gaming, substance use, and psychosocial problems in adolescents. Journal of Behavioral Addictions, 3(3), 157–165.
Zadra S., Bischof G., Besser B., Bischof A., Meyer C., John U., Rumpf H. J. (2016). The association between Internet addiction and personality disorders in a general population-based sample. Journal of Behavioral Addictions, 5, 691–699.