a cura della Dott.ssa Clarissa Lonzi

A livello sociale, il cancro rappresenta l’archetipo della malattia mortale in quanto determina un particolare disordine emotivo ed esistenziale, non solo in chi ne viene colpito, ma anche nelle persone che svolgono una funzione di supporto e di assistenza alla persona malata (SIPO, 2010).

La neoplasia si costituisce, infatti, come l’elemento scatenante di una crisi globale, di una modificazione dell’ambiente psicologico e dell’ambiente sociale, tale da determinare un clima paralizzante d’isolamento e da assumere un significato di minaccia alla propria esistenza, integrità, identità e ruolo.

Il cancro rappresenta sempre, per il paziente e per la sua famiglia ma anche per i clinici, una prova esistenziale sconvolgente; questa prova riguarda tutti gli aspetti della vita: il rapporto col proprio corpo, il significato dato alla sofferenza, alla malattia, alla morte, così come le relazioni familiari, sociali e professionali. Se l’atteggiamento dei familiari contribuisce molto ad influenzare le reazioni del malato di fronte al cancro, è vero anche il contrario: l’atteggiamento del paziente condiziona le reazioni dell’intero sistema familiare. Così gli stessi stati d’animo che l’individuo affetto da cancro vive nel percorso della sua malattia, sono vissuti anche dai familiari: rifiuto, collera, sensi di colpa.

Da non sottovalutare, risultano le conseguenze del caregiving che si verificano all’interno del sistema familiare sconvolto dall’avvento della malattia di uno dei suoi membri, ovvero come il cambiamento forzato a cui la famiglia dovrà fare fronte incide sulla sfera emotiva, cognitiva, comportamentale e relazionale di ciascun componente del sistema.

Nella storia emotiva di ciascun individuo, le relazioni all’interno della famiglia rappresentano la prima traccia significativa di rapporto e per tutta la vita continueranno a simboleggiare relazioni importanti, nell’ambito delle quali si intrecceranno sentimenti intensi, con una peculiarità prevalente, positiva o negativa, oppure di natura conflittuale. L’incontro con il cancro di uno dei membri, si inserisce nelle relazionali proprie di ogni singolo nucleo familiare, in particolare nell’ordine contestuale di un certo periodo. Nel contesto delle malattie oncologiche, alla famiglia viene richiesto di svolgere la funzione di ammortizzatore, nello scontro con questa nuova e pesante realtà fatta di sofferenza e rinuncia, e di contenitore di tutte quelle paure ed ansie che sono la naturale conseguenza di questo ribaltamento; per poter fare questo essa deve necessariamente mettere in atto un duplice sforzo: da un lato preservare la propria identità e continuità verso l’esterno, dall’altro riorganizzare al suo interno ruoli e pesi affettivo- economici, come conseguenza alla crisi generata dalla malattia e dai continui cambiamenti a questa collegati.

L’eventuale sovraccarico di responsabilità su chi non si sente all’altezza, i cambiamenti di ruolo, il dover occuparsi di compiti fino a quel momento riservati al familiare ammalato, possono creare sentimenti di colpa o conflitti di competenza.

 Nell’evoluzione della malattia si possono riconoscere alcune fasi distinte a cui corrispondono bisogni differenti dei familiari.

La prima si identifica con il periodo di tempo seguente alla diagnosi: ansia, paura, disperazione, timore per l’esito delle terapie, difficoltà nel rapporto con il malato.
La comunicazione della diagnosi ingenera nel caregiver una reazione analoga a quella vissuta dal paziente: incredulità, disorientamento, forte angoscia per il tipo di diagnosi e per tutto quello che questa evoca a livello personale e collettivo. In questa fase il caregiver inizia a modificare la gestione del tempo lavorativo e del tempo libero, vivendo in uno stato di tensione e preoccupazione rispetto all’esito delle cure. Tale stato può essere influenzato dalla situazione emotiva del paziente o influenzarla a sua volta, in uno scambio reciproco.

La seconda fase si identifica con la progressione della malattia, il decadimento delle condizioni generali e l’aumento del livello di dipendenza: la famiglia in questa fase avverte una profonda carenza di informazioni ed è preoccupata della comparsa e del controllo dei sintomi.

La terza fase è quella della negazione e della razionalizzazione in cui il caregiver accompagna il paziente nella ricerca frenetica di strutture, terapie adeguate, cercando di sostenerlo nell’iter degli approfondimenti diagnostici e nei momenti di comunicazione con i medici riguardo la situazione clinica e i trattamenti.

Solo in seguito il caregiver sarà in grado di sperimentare una fase di relativa accettazione attraverso il raggiungimento di un nuovo equilibrio che terrà conto delle esigenze e dei cambiamenti che la malattia dovrà apportare.

La responsabilità attiva del caregiver familiare aumenta nella quarta fase, quella del trattamento, quando, oltre al cambiamento delle normali attività della vita quotidiana di paziente e caregiver, si associa, per questo ultimo, il compito di sostenere il paziente nella gestione dei sintomi quali la fatica e il dolore che seguono ai trattamenti.

Al termine dei trattamenti il caregiver si trova ad affrontare la quinta fase, la remissione della malattia o la ripresa della stessa sotto forma di assenza di remissione, recidiva, seconda diagnosi. La progressione della malattia sembra corrispondere ad un deterioramento della qualità della vita del caregiver con compromissione della salute fisica, presenza di gravi disturbi del sonno, verosimilmente riferibili alla sintomatologia depressiva, ma anche aumento della paura della ripresa della malattia, minor supporto sociale e problemi nella relazione coniugale. In questa fase i sentimenti di autoefficacia, il supporto sociale e familiare possono giocare un ruolo fondamentale nel migliorare la qualità della vita, minacciata dalla mancanza di speranza, da altri stressor familiari e dalle valutazioni negative nei confronti della malattia e del ruolo stesso di caregiver. Solo in seguito si rileva una diminuzione dei livelli di distress, insieme ad una riorganizzazione delle relazioni, ad un miglioramento della vita coniugale e delle attività sociali.

La sesta fase palliativa/terminale, quando presente, rappresenta un momento di stress fisico ed emozionale particolarmente intenso per il caregiver; questi presenta elevati livelli di depressione, ansia e carico percepito. Oltre alla sfera fisica ed emotiva, in questa fase grande rilevanza assume l’impatto dell’attività di caregiving sulla qualità della vita: depressione, ansia, rabbia e problemi di salute si associano ad un deterioramento del funzionamento sociale e professionale, con ricadute anche sulla sfera economica.

La settima fase è quella del lutto e rappresenta un momento di particolare vulnerabilità: il prolungato periodo di stress che il caregiver ha affrontato nell’accudimento dell’ammalato ha infatti contribuito a ridurre o esaurire le sue risorse emotive e sociali. Una profonda sofferenza lo pervade, con ripercussioni a livello emozionale (quali disperazione e sentimenti di solitudine e abbandono), cognitivo (quali sentimenti di colpa, tendenza alla ruminazione, disorientamento), comportamentale (quali evitamento sociale, difficoltà nel portare a termine le proprie attività) e somatico (quali insonnia, astenia, cefalea e modificazioni di tipo neuroendocrino e immunitario).

In conclusione possiamo affermare che i caregivers si fanno portatori di bisogni che riguardano strettamente la loro persona, quali l’acquisizione di abilità di coping nel gestire l’angoscia, il supporto durante la fase palliativa e dopo la morte del familiare, l’attenzione alla salute fisica e mentale, il man- tenimento di spazi personali e di una rete sociale.

Dal punto di vista psicologico, una relazione di aiuto specialistica, garantirebbe, al caregiver, la possibilità di esprimere le proprie reazioni emotive, il vissuto personale, e le problematiche legate all’attività di cura, in particolare quelle relative alla relazione con il malato.

La relazione affettiva con il malato rende infatti difficile, un distanziamento protettivo del caregiver rispetto alle sue stesse reazioni emotive e ai vissuti del paziente. Il desiderio di proteggere quest’ultimo dalle implicazioni psicologiche e sociali della malattia e il tentativo di evitargli preoccupazioni e ansie circa l’andamento della stessa, possono aumentare il carico di ansia e di responsabilità del caregiver

Aumentare le competenze del caregiver rispetto all’attività di cura e alla gestione degli aspetti emotivi che ne derivano, lo facilitano nel fornire, ma anche nel richiedere, aiuto, assumendo, dunque, una valenza non solo supportiva per il percorso di assistenza, ma anche preventiva dello sviluppo dello stress del caregiving.

In realtà, comunque, sembra che dalle ricerche emerga l’esigenza di capire se queste persone, che si dedicano ai propri cari per la maggior parte del proprio tempo, tralasciando se stessi e l’ascolto dei propri bisogni, in particolari momenti dell’assistenza quotidiana all’ammalato, provino delle emozioni positive, di soddisfazione personale, di competenza nel sentirsi portatori della cura e unici responsabili della vita del proprio caro morente.

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