a cura del Dott. Dario Pappalardo

Classe ’68. Artista ribelle di un’epoca in declino.

Nasce e cresce a Philadelphia in Pennsylvania, consegue un B.A. Degree in Psicologia presso la Wesleyan University di Middleton e inizia a lavorare presso un’unità psichiatrica nella West Coast, nella fervente Seattle, protagonista in quel periodo storico della corrente Grunge, un genere di musica alternativa e in senso lato una forma di sottocultura popolare fra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, un’ etichetta che racchiude il disagio di una generazione ribelle ma rassegnata all’impossibilità di esercitare un cambiamento in una società percepita come marcia e insanabile nelle sue radici.

Ellen decide di diventare una fumettista per caso, sulla spinta di un’ispirazione folgorante: “un giorno del 1991 mi trovavo in un negozio di fumetti e stavo acquistando un libro della fumettista Alison Bechdel. Il commesso mi chiese se anch’io fossi una fumettista. Fu strano perché sentii come se fosse una rivelazione, quasi come se lui avesse percepito qualcosa in me. Ricordo di essere rientrata rapidamente nel mio appartamento e di aver iniziato a lavorare al mio primo libro ‘Tale madre, tale figlia’”.

Già in queste poche frasi si percepisce lo spirito inquieto di una persona che poi soffrirà a lungo di Disturbo Bipolare. Un disturbo che le sarà diagnosticato circa 6 anni dopo, ma di cui racconterà di aver iniziato a soffrire ben prima. Un’odissea che racconta con una franchezza e sincerità spiccate nel suo libro di fumetti autobiografico “Marbles: Mania, Depression, Michelangelo, and Me”, pubblicato nel 2012. Un autentico memoriale ventennale della sua lotta contro questo logorante disturbo. L’artista segue le orme di chi, prima di lei, ha scritto autobiografie su questo – il pensiero cade ovviamente su “Una mente inquieta” della famosa psicologa Kay Redfield Jamison, o, in Italia, su “Lunatica” della giornalista Alessandra Arachi – ma si prende il merito di farlo ritraendo l’esperienza in vignette. La resa grafica aggiunge il mezzo visivo alla comprensione del disagio e della lotta e rende la lettura dell’opera molto fluida, ironica, iconica. 

Nelle prime pagine il perfetto ritratto dell’episodio maniacale, l’idea improvvisa (e subito messa in atto) di un tatuaggio a piena schiena, il flirt col tatuatore, l’alta soglia al dolore, il ridotto bisogno di sonno e di cibo, la fuga psicomotoria, la logorrea, la sensazione di comunione con l’universo,  seguito, nel secondo capitolo, dall’assessment e successiva diagnosi di disturbo bipolare I della psichiatra. Da quel momento in avanti Ellen racconta di un rifiuto, non tanto della diagnosi, quanto della proposta terapeutica, caratterizzata da trattamenti di psicoterapia e farmacoterapia integrati; chiede di non dover prendere farmaci, mente sul consumo di cannabinoidi, caffé e alcol, per non incorrere nella prescrizione della psichiatra di limitarli o eliminarli, si butta nel lavoro in maniera sconclusionata avviando progetti su progetti, e vive nel terrore di perdere la sua creatività, qualora accettasse di prendere farmaci, basandosi sull’idea stereotipata e assolutistica che l’artista è genio e follia nello stesso tempo. Anzi, la diagnosi diventa quasi un fiore all’occhiello alla carriera d’artista, perché quest’etichetta è appartenuta ai migliori geni dell’arte e della letteratura. Questa prima parte dell’opera è intrisa di accortezze, subdole strategie, omissioni che la persona, sofferente di disturbo bipolare ma in fase maniacale conclamata, usa per convincere se stesso e gli altri di saper gestire uno stato psicopatologico unico nel suo genere: la sensazione di essere divisi in due stagioni, estate e inverno, e di dover pianificare le attività quotidiane e a lungo termine in base a due approcci antitetici alla vita. Il pensare di poter fare tutto quello che serve in vista della fase depressiva, quasi come far scorte prima del letargo, l’illusione di ricordare l’intensità e la qualità degli episodi depressivi passati per prevenire quelli futuri sottovalutando le trappole della mente, che ci fa prevedere e ricordare secondo distorsioni collegate al tono dell’umore.

E infatti arriva. Il cosiddetto “atterraggio”, disperato, inaspettato perché sottovalutato. Lo spunto di Ellen che disegna dei topi impazziti nella sua testa o il lento scivolamento nel baratro della depressione evocano davvero sensazioni analoghe al lettore, fanno capire tutto, in una pagina, in un colpo d’occhio. Quello è il momento in cui Ellen si accorge di aver spinto al massimo, di essersi creduta erroneamente invincibile, infaticabile, a livello cognitivo e motivazionale, di aver investito tutto su questo personaggio euforico e vulcanico portandosi allo stremo delle energie, impreparata ad accettare la fragilità che la fase depressiva porta con sé. Non a caso parla di se stessa come “uno spreco di spazio” mentre la vediamo raggomitolata nella sua coperta sul divano in pieno giorno.

La dovizia di particolari è evidentemente figlia di una profonda conoscenza della fenomenologia del disturbo e può tornare molto utile al paziente che voglia “toccare con mano” un’esperienza diretta, che il registro fumettistico riesce a trasmettere con un’immediatezza e una capacità impressiva ed espressiva che il solo canale testuale, anche se ben rappresentato nei contenuti e negli stilemi, non può eguagliare. Questo libro di fumetti si presta ad essere consigliato a pazienti con questo disturbo, proprio per il modo accurato con cui descrive i contenuti e i processi di pensiero in vivo frequenti in chi ne è affetto. Un altro pregio è quello di mostrare l’esperienza bipolare nel corso degli anni, le strategie nuove, le ricadute, il continuo confrontarsi rispetto agli episodi precedenti per gestire la portata e l’intensità di ogni nuovo episodio, il progressivo ristrutturarsi delle credenze e degli scopi di vita per emanciparsi da iperinvestimenti spesso individuati nello sviluppo personale in termini di competenze, il timore di nuovi episodi, lo stigma sociale, le domande frequenti su cosa sia disturbo e cosa no nell’esperienza emotiva ed affettiva quotidiana. Il succitato percorso è inestimabile per sopravvivere dignitosamente ad un disturbo invalidante come questo, ma ha il grosso difetto di essere soggettivamente troppo nebuloso, poco chiaro, troppo lungo, spesso impalpabile. Questo libro ha il merito di mettere al servizio le immagini e la molta autoironia di Ellen al servizio della comprensione “a pelle” di cosa significa vivere questa Odissea cercando di renderla certamente meno perigliosa e lunga di quella omerica.

Per finire, fornisce un messaggio di speranza. Ellen alla fine ce la fa, e ce la fa grazie al suo percorso , all’aiuto della madre e al percorso terapeutico che non abbandonerà fino alla fine. Gli ultimi capitoli mostrano proprio come la persona si adatti alla fluttuazione facendo tesoro degli anni precedenti, di tutti i tentativi riusciti e falliti di stabilizzarsi, e di stimoli diversi. Particolarmente vera e sincera l’ultima parte nel quale, al posto della psichiatra, Ellen si trova a colloquio con se stessa del passato, e rassicura quest’ultima sul percorso che si troverà a fare.