A cura del Prof. Enea Nottoli

Il compito a casa è un “dogma” della tradizione scolastica, convinti che possano realmente cambiare la “vista scolastica” egli allievi

Quante volte, da studenti, ci siamo chiesti e abbiamo chiesto a cosa servissero quelle “sfilze” di esercizi per casa o per le vacanze? Quante volte ci siamo sentiti rispondere in modo vago ed approssimativo, da chi, in realtà avrebbe dovuto darci una spiegazione un po’ più logica e credibile?

Il titolo, molto provocatorio, in realtà non vuole demonizzare una pratica, bensì metterne in risalto alcune sfaccettature importanti che, almeno in parte lasciano spazio ad “antiche credenze” e all’incapacità della scuola di andare oltre, calandosi in un contesto che sta mutando e che richiede ogni giorno riflessioni nuove e più strutturate.

Il “dogma” del compito a casa è uno di quei punti sul quale la scuola non intende aprire un confronto serio e costruttivo, lasciando ad ognuno una libera interpretazione, nella speranza che vengano trovate soluzioni più o meno performanti a secondo dei casi singoli o collettivi.

Il compito a casa è indubbiamente qualcosa che fa parte del percorso “lavorativo” di ogni studente e perché no, anche di ogni docente, visto che alla fine è lui a somministrarlo per il bene del discente. Ciò che si vuole affermare attraverso la somministrazione di esercizi, pagine di studio, disegni, tabelle o altro è che, il lavoro compiuto in classe non è assolutamente sufficiente, quindi bisogna integrare con un lavoro specifico e di approfondimento nel tempo rimanente della giornata.

La domanda importante, dalla quale partire per esplorare questo mondo complesso è questa: il compito a casa serve o non serve?

Dopo questo primo impatto altri quesiti vengono spontanei: come devono essere somministrati? In che quantità devono essere somministrati? Ogni quanto devono essere somministrati? Quale deve essere il comportamento del docente verso la realizzazione o meno dei compiti assegnati?

Partendo dalla prima domanda potremmo fare un ragionamento quanto più oggettivo e pragmatico, privo di ogni influenza ideologica o esperienza personale diretta. Proviamo a pensare allo studente come ad un atleta; ogni giorno si allena all’apprendimento dalle 5 alle 8 ore, a seconda del grado di scuola e dal percorso scelto. Indubbiamente siamo di fronte ad un tempo molto importante, considerando che alla fine della settimana il monte ore andrà dalle 30 alle 40 ore di lavoro sul campo. Dopo tale esercizio l’atleta dovrebbe inevitabilmente risultare molto allenato, quindi andare a sovraccaricare con altre ore di “allenamento”, potrebbe portare all’effetto contrario, cioè ad una “overdose prestazionale”.

Evidentemente ogni giorno non è uguale all’altro, quindi i carichi vengono smistati in modo equo, almeno così ci aspetteremmo che fosse, perciò potrebbe essere interessante prevedere attività di stretching, rifinitura o consolidamento ma non di “allenamento completo”.

Trasportando tutto questo nel mondo della scuola e dei compiti, dunque, dopo un’attività intensa durante la mattinata potremmo prevedere una fase di scarico pomeridiana, in cui l’alunno potrebbe essere lasciato libero di ricaricare la mente; al contrario in momenti di “relativa tranquillità” potrebbero essere previste attività pomeridiane affini al consolidamento, ma non eccessivamente gravose.

Un esempio molto evidente è data dalla preparazione ad una verifica: l’usanza è quella di dare una serie di esercizi per casa, in modo che l’alunno si possa esercitare in previsione della prova. In realtà con un monte ore a disposizione importante, ogni docente potrebbe tranquillamente preparare la prova in classe, lasciando così il giorno prima la possibilità agli alunni di “scaricare” la tensione provocata dalla prestazione del giorno successivo.

Da qui passiamo direttamente alle domande successive, trovando delle risposte molto efficaci.

È indubbio che i compiti debbano essere somministrati, ma il docente deve fare questa operazione con attenzione e criterio. Non ha alcun senso “caricare” gli alunni con quantità di esercizi che sappiamo già che non svolgeranno, oppure con decine di pagine da studiare da cui non apprenderanno altro che una serie di nozioni superficiali. Il compito, laddove venga somministrato deve servire a mantenere “in forma” lo studente e soprattutto non deve essere vissuto come un momento punitivo, bensì di confronto con se stesso in relazione alle proprie conoscenze sull’argomento.

Un elemento di consolidamento e non un fattore di carico. Questo deve essere il compito somministrato e, per questo motivo, non sarà necessario darlo tutti i giorni o con cadenza regolare: non è detto, infatti, che un argomento abbia le stesse esigenze rispetto ad un altro, sia quantitativamente che numericamente.

Se apriamo i registri di classe, quelli su cui vengono annotati  i compiti per casa, le verifiche, le assenze e le sanzioni disciplinare ci accorgiamo, di come il comportamento dei docenti sia ripetitivo e sistematico: faccio un argomento, do un numero “x” di esercizi e un numero “y” di pagine da studiare per la volta dopo. Se confrontiamo i registri degli anni precedenti, ci accorgiamo di come questo comportamento sia un “rituale”, infatti non viene tenuto conto del livello della classe, bensì della propria esigenza: ogni argomento corrisponde ad un numero di pagine e ad un numero di esercizi.

Nessuno ha intenzione di affermare l’inutilità completa dei compiti assegnati per casa, l’elemento sul quale dobbiamo, però, aprire inevitabilmente una considerazione è sull’utilità e sull’utilizzo che ne viene fatto.

Se ogni mattina ci rechiamo fuori da una scuola secondaria di primo o secondo grado, possiamo assistere ad uno dei fenomeni più diffusi e “antichi” nella storia della scuola: la copiatura. Decine di alunni riuniti in gruppo per copiare gli esercizi di matematica, grammatica, inglese e tutto ciò che riguarda quella mattinata; allo stesso modo durante le ore pratiche, da sempre ci sono alunni che si dedicano all’antica arte della copiatura.

Tutti ne siamo a conoscenza, ma tutti facciamo finta di non sapere o di non vedere, questo perché un’analisi approfondita del problema ci porterebbe ad una critica del sistema: a cosa è servito aver riempito il diario ed il registro di compiti se, alla fine, questi vengono copiati dalla maggioranza degli studenti? Non era forse più utile utilizzare un’ora del proprio tempo per fare la stessa cosa in classe?

Probabilmente il risultato sarebbe stato migliore, non solo perché avremmo evitato uno spettacolo poco edificante fuori dalla scuola, ma soprattutto perché il docente avrebbe potuto percepire fino in fondo le reali difficoltà di ogni singolo alunno, potendo così intervenire in modo mirato ed efficace.

Preparare una verifica in classe o, assegnare un’esercitazione in classe per poi passare alla correzione collettiva non è un segno di incapacità da parte del docente, bensì la presa di coscienza che il proprio lavoro è quello di mettere in pratica tutti i sistemi migliori per la crescita del discente.

Se dovessimo arrivare ad una conclusione, ad una teoria finale potremmo affermare che in realtà il problema non sta nel compito per casa, bensì nell’utilizzo che ne viene fatto. La credenza popolare in ambito scolastico ci narra che colui che è più severo, colui che assegna più compiti a casa, colui che assume una posizione di distacco completo dalla classe è un “bravo maestro”, chi al contrario cerca di interpretare ogni fattore in base al contesto in cui opera è un “cattivo maestro”. Tutto deve avere una misura, tutto deve avere un senso: se il gruppo ha lavorato bene in classe ha probabilmente raggiunto il proprio scopo, quindi potrà dedicare il pomeriggio ad altre scoperte o ad altre attività, che assieme a quelle del mattino lo aiuteranno nel proprio percorso di crescita, fatto non solo di numeri e parole ma anche di esperienze.