a cura della dott.ssa Martina Perini della dott.ssa Lavinia Lombardi

 

Chi di noi non conosce il detto “pater patrimonio mater matrimonio”?

Il termine patrimonio viene dal latino patrimonium, composto da Pater (Padre) e Munus (Compito); in questa parola si enuclea il dovere del padre: provvedere al sostentamento della famiglia attraverso il suo lavoro e le sue risorse al fine di soddisfarne i bisogni.

Matrimonio dal latino matrimonium, dall’unione delle parole Mater (Madre) e Munus (Dovere); il matrimonio era nel diritto romano il compito della donna: a lei spettavano infatti l’educazione dei figli e la gestione della famiglia.

Come si evince dall’etimologia di queste due importantissime parole il ruolo educativo ed affettivo del papà nel tempo è stato spesso sottovalutato, depotenziato oppure è stato lasciato in secondo piano, essendo associato al mantenimento economico. Nella creazione del nucleo familiare si pensa solitamente al classico modo di cura e gestione del bambino, nel quale la madre viene considerata la figura primaria di attaccamento, dedita alle cure affettive e fisiologiche, ed al padre viene comunemente attribuita la negligenza esercitata attraverso un ruolo marginale e scarsamente significativo.

Anche per quanto riguarda la storia della pratica terapeutica dell’900 i padri sono sempre stati considerati marginali, perché assenti o periferici o comunque difficili da ingaggiare a causa del lavoro. Di contro ci siamo spesso trovati di fronte una madre presente, spesso iper-coinvolta, che regolava la comunicazione in casa.

Paradossalmente il padre era più presente in casa nel secolo precedente, nell’800, quando tutta la famiglia era impegnata in attività agricolo-rurali.

Il padre patriarcale era affettivamente distante, autoritario, delegava le cure quotidiane dei figli alle donne di casa.

Pian piano grazie all’emancipazione dell’ultimo secolo siamo passati dal padre autoritario al padre democratico, una figura emotivamente accessibile. A volte si parla addirittura di “mammi”; modelli diametralmente opposti che si occupano totalmente dei figli, rischiando però di perdere le prerogative maschili di autorevolezza e contenimento che sono necessarie per il processo di sviluppo e di identificazione e maturazione dei figli.

Ma è davvero così irrisorio il ruolo paterno?

Prendendo l’esempio tradizionale di nucleo familiare in cui la madre è la figura di attaccamento primario, il padre ha l’importante compito di entrare nel rapporto simbiotico tra madre – figlio e lo aiuta a separarsi dalla madre per differenziarsi. È il primo passo che lo porterà verso la costruzione di una propria identità. Il suo compito è quello di offrire al bambino l’esperienza della triangolazione (Minuchin 1974), cioè di un incontro a cui partecipano tre entità distinte: bambino, madre e padre. Già la presenza del papà favorisce il riconoscimento da parte del bambino di se stesso come essere esistente in maniera concreta e distinta dalla madre. Secondo gli studi effettuati da Fivaz-Depeursinge e Corboz-Warnery (1999), il bambino è in grado di adottare tale capacità di triangolazione già a tre mesi. Di fronte al comportamento di un genitore il bambino può volgersi verso l’altro o per avere informazioni rassicuranti o per condividere la propria gioia. Ad esempio, mentre il bambino interagisce con la madre, può richiamare l’attenzione del padre che è al momento in posizione periferica. Il padre, può utilizzare questa opportunità fornita dal bambino o come una condivisione di affetti oppure come un segnale di uscita dallo scambio con la madre per poterne prendere il posto. Il padre, quindi, ha un ruolo molto importante per il primo passo verso il lungo cammino dell’autonomia del bambino. Ci sono alcune ricerche che mostrano come il papà possa avere un ruolo specifico nello sviluppo emotivo del bambino, altrettanto importante quanto quello materno. Lamb (1981), Parke (1981), Lewis (1986) studiando la relazione tra padre – figlio, hanno individuato modalità tipiche di interazione, mentre i papà tendono ad avere scambi molto più fisici e attivi prediligendo giochi come: azzuffarsi, inseguirsi, lanciare il bambino in aria, fare il solletico; le madri sono più delicate, utilizzano i giocattoli per interagire nei giochi, rispondono in modo più tempestivo e prediligono forme di interazione verbale piuttosto che fisiche. Quindi i bambini, in tal caso, imparano molto presto che i genitori hanno una funzione diversa: il padre assume quella del compagno di gioco, mentre la madre di colei che l’assiste.

In genere, secondo il nucleo “tradizionale” della famiglia, il padre assume un ruolo di completezza, ma ci sono numerosi casi in cui il padre è la figura primaria di attaccamento, basti pensare che circa il 10-15% delle neomamme possono manifestare i sintomi della depressione post-partum e frequentemente non riescono a prendersi cura dei propri bambini, oppure laddove emergono altre cause che non consentono alle mamme di sostenere il ruolo primario di attaccamento, come nei casi di cura di gravi malattie o nei casi di morte. Come agisce il papà, quando ricopre il ruolo di figura primaria? Nelle ricerche di Field (1978) West e Konner (1976) sono state disconfermate le comuni idee di predeterminazione dei ruoli materni e paterni. Perfino tra gli animali, talvolta, è il maschio che si prende cura della prole bocciando le teorie genetiche che individuano le donne come programmate per prendersi “naturalmente” cura dei figli. Qualora i padri si assumono la responsabilità delle cure, le differenze di genere scompaiono, i dati confermano che il loro comportamento li avvicinava a quello solitamente adottato dalle madri. In un’altra ricerca di Parke (1981) risulta che i padri nel rapporto con i figli sono ricettivi e capaci quanto le madri. Quindi, nei casi in cui il padre è la figura di attaccamento primario, valgono a tutti gli effetti le comuni teorie del sistema d’accudimento (caregiving system), che ha la funzione di protezione genitoriale dei figli ed è strettamente legato a quello d’attaccamento introdotto da John Bowlby. Con il termine attaccamento si identificano i comportamenti dei bambini volti a ricercare e mantenere una condizione di vicinanza fisica e psicologica verso la figura elettiva di riferimento. Crescere i propri figli non è semplicemente un problema di cosa fa il genitore, ma è un problema di cosa egli pensa in merito al proprio ruolo. Di conseguenza il sistema di credenze del papà è fondamentale nella determinazione del tipo di rapporto che intende creare con i propri figli e che a loro volta influenzano lo sviluppo emotivo del bambino. Sulle credenze genitoriali ha un grande peso il contesto culturale, ad esempio, come riscontrato in uno studio di Harksness e Super (1992), mentre i genitori occidentali tendono a porre in primo piano i problemi di competizione dei figli, quelli delle società rurali africane danno attenzione alla cooperazione. Un altro tipo di influenza sulle credenze genitoriali è data dalla struttura di personalità del genitore che determina il suo stile educativo. Oltre all’importanza delle caratteristiche di personalità, è fondamentale il ruolo che il papà occupa all’interno della propria famiglia e quanto riesca ad allinearsi e/o a plasmare l’altro partner per adottare gli stessi orientamenti educativi nei confronti dei figli.

Da tutti gli studi presi in esame nel presente articolo si evince il fatto che forse dobbiamo riflettere e cambiare prospettiva riguardo alla tradizionale immagine del padre, imparando a vederlo come una grande e preziosa risorsa per lo sviluppo del bambino e per l’armonia della coppia genitoriale. Di pari passo, in tempi recenti, il ruolo paterno è stato rivalutato anche nella pratica del contesto terapeutico. Anzi, proprio nella terapia familiare, è risultato strategico il suo contributo nella risoluzione di problematiche, in contrasto con il pensiero incentrato sulla diade madre-figlio che ha pervaso tutta la precedente ottica psicoanalitica. Grazie a terapeuti come S. Minuchin, C. A. Whitacker, M. Selvini Palazzoli il papà è entrato fisicamente nella stanza di terapia ed il suo contributo attivo ha reso sempre più indispensabile la sua presenza.

Concludiamo il nostro scritto con una bella similitudine tratta dal mondo della natura che ci ha suggerito il grande terapeuta A. Canevaro. I cormorani sono uccelli marini che prima di abbandonare il nido scompaiono qualche giorno poi tornano e regrediscono a comportamenti più “infantili”, appresi nelle prime ore di vita, facendosi per esempio rimbeccare dai genitori o pigolando per poi spiccare il volo fino alla primavera successiva, nonostante la chiamata insistente dei genitori. Kortland, lo zoologo olandese che negli anni ’50 studiò questo fenomeno, chiamò questo processo la reprogressione biologica: “Fare un passo indietro per farne due avanti”. Allo stesso modo gli individui per poter evolvere ad uno stadio di sviluppo autonomo nella conferma del sè hanno bisogno del coinvolgimento dei familiari significativi, proprio come fanno cormorani che prima di abbandonare il nido regrediscono a comportamenti precedenti. Fare un passo indietro significa risolvere i conflitti con la famiglia di origine e recuperare una solida base affettiva con il padre e con la madre, nutrimento necessario per poi spiccare il volo liberamente.

 

Approfondimenti:

  • Andolfi M. (2001), Il padre ritrovato. Alla ricerca di nuove dimensioni paterne in una prospettiva sistemico-relazionale. Franco Angeli, Milano.
  • Bowen M. (1980), Dalla famiglia all’individuo. Astrolabio Ubaldini, Roma.
  • Canevaro A. (2009), Quando volano i cormorani. Borla, Roma.
  • Canevaro A., Selvini M., Lifranchi F., Peveri L. (2008), La terapia individuale sistemica con il coinvolgimento dei familiari significativi, Psicobiettivo, 1.
  • Parke (1981), The Developing Child: Fathers, Paperback.
  • Field T. (1978), Interaction behavior of primary versus secondary caretaker fathers. Developmental Psycology, 14, pp. 183-184.
  • Fivaz-Depeursinge, E., Corboz-Warnery, A. (1999), The primary triangle. Basic Books, New York. [Trad. it.: Il triangolo primario, Raffaello Cortina, Milano, 2001].
  • Harkness, S., & Super, C. M. (1992). Parental ethnotheories in action. In I. Sigel, A. V. McGillicuddy_DeLisi & J. Goodnow (Eds.), Parental belief systems: The psychological consequences for children (2nd ed.) (pp. 373_392). Hillsdale, NJ: Erlbaum.
  • Lamb, M. E. (1981a), The development of father-infant relationships. In M. E. Lamb (Ed.), The role of the father in child development (Rev. ed., pp. 459–488). New York: Wiley
  • Lewis, David K. (1986), On the Plurality of Worlds. Oxford: Blackwell.
  • Minuchin S. (1974), Famiglie e terapie della famiglia; trad. it. Astrolabio Roma.
  • Parke R. D. (1981), Fathering. Collins, London; Harvard University press, Cambridge, MA.
  • Selvini M. (2000), Vecchi e nuovi padri, Ecologia della mente, 2.
  • West, M. M., Konner M. J. (1976). The role of the father: an anthropological perspective. In: Lamb, M. (a cura di) the role of the father in child development. Wiley, New York.